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Il seguente viene ad essere un post con riferimento al testo dello scritto: G. De Angelini, "Le memorie istriane di Raimondo Devescovi", Quaderni, Vol. XXII, 2011, p. 277-31. Infatti questo mese lo dedico a questa testimonianza, esposta in maniera eccellente dall'autore.

Il primo settore del capitolo iniziale viene riportato qui a continuazione, mentre per i rimanenti si prega il lettore di andare al sito:https://www.academia.edu/18586514/Le_mem...

MEMORIE DI UN ISTRIANO

L’esodo da Pola nel maggio 1915

Un’epoca serena e felice fu quella che precedette la prima guerra mondiale; io ne serbo un caro ricordo, perché fu il tempo della mia spensierata fanciullezza, trascorsa nella ridente città di Pola. Pola è un’attraente città, sita all’estremità meridionale della penisola d’Istria; le sue rive, le sue spiagge, i suoi parchi, le sue colline verdeggianti, sulle quali essa è sorta e si è estesa, i suoimonumenti romani e specialmente il suo limpido e azzurro mare sono le sue ricchezze naturali, percui la città è sempre stata un apprezzato e importante centro turistico. Così pure le vicine IsoleBrioni sono incantevoli. In quei tempi Pola era ancora soggetta alla dominazione austriaca; lasituazione economica della città era fiorente, specialmente per l’esistenza del grande arsenale marittimo, dove venivano costruiti gli incrociatori, le corazzate e altre navi; ivi avevano un’occupazione permanentemente parecchie migliaia di operai, nonché tecnici e ingegneri.Nel maggio del 1915, mio padre era medico presso un grande Istituto di assistenza sanitaria locale,chiamato Cassa provinciale di malattia, dove egli esercitava la sua professione già da parecchi anni, a favore dei dipendenti predetti dell’arsenale nonché di lavoratorie di tanti cittadini.

Io ero allora studente ginnasiale undicenne; mia sorella Alma di vent’uno anni era diplomatainsegnante di scuole elementari; l’altra sorella Lea di venti tre anni, era iscritta alla Facoltà di lettere dell’Università di Graz, nella Stiria. Mia madre Bianca originaria da Pisino, trasferitasi a Pola con mio padre nei primi anni di questo secolo, si dedicava all’educazione dei figli e alle faccende domestiche.

Durante l’estate si andava a villeggiare dai nostri nonni materni Giuseppe ed Anna Cech. Durante alcuni anni precedenti la prima guerra mondiale, cioè nel 1911, 1912 e 1913, passai dei mesi felici presso gli stessi nonni a Pisino, nella loro casa ospitale, assieme ad altri parenti. Prima che io nascessi era scomparso improvvisamente, mentre cantava nel coro di una chiesa diRovigno, il mio nonno paterno Raimondo Devescovi, che abitava colà con la moglie Eufemia e i figli. Seppi ch’egli esercitava la professione di commerciante di tessuti, però si dedicava alla letteratura, era autore di vari racconti, che descrivevano la vita della popolazione rovignese e in particolare dei pescatori dell’Adriaticio. Egli era un uomo di grande bontà e talento.

Nell ’imminenza del conflitto tra l’Italia e l’Impero austro-ungarico, che doveva poi iniziarsi il 24 maggio 1915, le autorità austriache ritennero necessaria l’evacuazione di Pola di tutta la popolazione civile, di nazionalità italiana, e il suo trasferimento nella Stiria e nell’Austria inferiore, cioè nei dintorni di Graz e di Vienna. Mio padre e tante altre persone, professionisti, impiegati, commercianti ecc. che, in varie occasioni avevano pubblicamente sostenuto il diritto della Venezia Giulia, abitata prevalentemente da italiani, ad essere unita al regno italico, furono trasferiti dalle autorità austro-ungariche in lontane località e dovettero sopportare, durante il periodo bellico, disagi e persecuzioni.

In effetti l’ordine dievacuazione di Pola venne emanato la sera del 17 maggio. L’ordine riguardava oltre al territorio di Pola, anche altricentri dell’Istria mer idionale come Rovigno, Valle e Dignano.

La maggior parte degli istriani venne raccolta nell'accampamento “Fliichtlingslager” di Wagna. Gruppi di minor consistenza si trovavano anche a Gmund, Leibnitz, Steinklamm, Oberhollabrunn, Oberstinhenbrunn, Pottendorf, Kamensdorf, Napensdorf, Nulendorf, Innendorf,Gutendorf, Bruck an der Leitha, Retz; in Ungheria: Paks, Bonjihadi, Salka, Grund, Mocva, Kisvejka; ed ancora inCecoslovacchia, Moravia e Boemia.

A questo riguardo è significativa la denuncia del polacco Halban: “Non invidio l’uomo che ha inventato il Barackensystem, egli dovrà rispondere davanti a Dio e allo Stato di migliaia di esistenzedistrutte, egli dovrà rispondere davanti a Dio e all’Austria del fatto che migliaia di cittadini venuti qua come amantidello Stato, come fedeli, leali cittadini, perché non volevano mettersi a disposizione del nemico, o sono morti qui o sonoritornati nella loro patria pieni di sfiducia verso lo Stato” in ”Fuggiaschi. Il campo profughi di Wagna 1915-1918” di P. Malni.

Fu così che in una serena sera del maggio 1915, mentre mi trovavo a cena con imiei genitori e le mie due sorelle nel tinello del nostro appartamento, che si affacciava su piazza Carli, un funzionario austriaco si presentò a mio padre comunicandogli l’ordine di abbandonare la città, per recarsi, come sapemmo più tardi, in una località lontana. Mio padre Carlo aveva alloraquaranta sette anni.

Mia madre ritenne opportuno, frattanto, di trasferirsi assieme a me e alle mie due sorelle, a Pisino, piccola città dell’Istria, presso i propri genitori.

Mio nonno Dott. Giuseppe Cech, esercitava colà la professione di notaio; mia nonna Anna Massopust (figlia di Giovanni, avvocato e di Maria Fedel, entrambi pisinesi) era una signora anziana, dotata di grande vitalità ecoraggio. I nonni possedevano a Pisino una grande e comoda casa, sita nel centro della città, le cuifinestre erano rivolte a mezzogiorno, perciò esposte sempre al sole.

Al pianoterra c’era lo studio notarile del nonno, sempre affollato di clienti della città e dei dintorni. Al primo piano abitava la
famiglia di mio zio Luigi Cech (funzionario delle Poste); al secondo c’era l’ampio appartamento dei nonni, con molti mobili antichi e pregiati; dalle finestre si godeva il panorama della vallata e di unavasta collina verdeggiante. A metà della stessa, su di un terrapieno delimitato da una scarpata, sitrovava la strada ferrata; più volte, nella giornata spuntava sbuffante il treno che percorreva la lineada Pola a Trieste; data la distanza dalla nostra dimora, di circa un paio di chilometri, esso sembravaun treno in miniatura.

Al terzo piano della casa, c’erano alcune stanze riservate agli ospiti, chefurono da noi occupate in quella occasione. Dietro l’edificio c’era un bel frutteto, di proprietà del nonno, il quale possedeva pure una grande campagna, fuori del paese, ben curata dai mezzadri, con vari vigneti e una pineta, nella quale si godeva l’aria fresca, pure in piena estate.

Pisino è anche nota perché, alla sua periferia, esiste una enorme voragine, larga un centinaia di metri, profonda circa trenta e lunga alcuni chilometri. Sul fondo di tale voragine, chiamata “Foiba”, scorre un ruscello,che poi prosegue il suo corso nel sottosuolo; in certi periodi dell’anno, in seguito alle intense piogge, tutta la ”Foiba” si riempie d’acqua; i detriti, ostrue
ndo le aperture del canale sotterraneo,fanno, infatti, salire il livello delle acque; a un certo punto la loro massa abbatte gli ostacoli ed esseriescono a defluire per il canale sotterraneo.

Sopra la Foiba, sulla roccia scoscesa, si trova il famoso Castello dei Montecuccoli. Tale castello è descritto in un noto romanzo di Giulio Verne, il quale,prima di iniziare la sua stesura, ricevette da mio nonno Giuseppe (che in quel tempo era Podestà diPisino) tutte le informazioni in proposito. Finito il romanzo Giulio Verne ne regalò una copia a mio nonno con una dedica autografa.


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Friday, 15 October 2021 Le memorie istriane di Devescovi

Il seguente viene ad essere il riferimento al testo dello sctritto: G. De Angelini, "Le memorie istriane di Raimondo Devescovi",
Quaderni, Vol. XXII, 2011, p. 277-31.

Il primo capitolo videne ripoprtato qui, mentre per irimanenti si prerga iol lettore di andsre al sito:https://www.academia.edu/18586514/Le_mem...

MEMORIE DI UN ISTRIANIO

L’esodo da Pola nel maggio 1915
.
Un’epoca serena e felice fu quella che precedette la prima guerra mondiale; io ne serbo un caro
ricordo, perché fu il tempo della mia spensierata fanciullezza, trascorsa nella ridente città di Pola.
Pola è un’attraente città, sita all’estremità meridionale della penisola d’Istria; le sue rive, le sue
spiagge, i suoi parchi, le sue colline verdeggianti, sulle quali essa è sorta e si è estesa, i suoimonumenti romani e specialmente il suo limpido e azzurro mare sono le sue ricchezze naturali, percui la città è sempre stata un apprezzato e importante centro turistico. Così pure le vicine IsoleBrioni sono incantevoli. In quei tempi Pola era ancora soggetta alla dominazione austriaca; lasituazione economica della città era fiorente, specialmente per l’esistenza del grande arsenale
marittimo, dove venivano costruiti gli incrociatori, le corazzate e altre navi; ivi avevano un’occupazione permanentemente parecchie migliaia di operai, nonché tecnici e ingegneri.Nel maggio del 1915, mio padre era medico presso un grande Istituto di assistenza sanitaria locale,chiamato Cassa provinciale di malattia, dove egli esercitava la sua professione già da parecchi anni,a favore dei dipendenti predetti dell’arsenale nonché di lavoratorie di tanti cittadini.

Io ero allora studente ginnasiale undicenne; mia sorella Alm
a di vent’uno anni era diplomatainsegnante di scuole elementari; l’altra sorella Lea di vent
i tre anni, era iscritta alla Facoltà di lettere
dell’Università di Graz, nella Stiria.
Mia madre Bianca
2
originaria da Pisino, trasferitasi a Pola con
mio padre nei primi anni di questo secolo, si dedicava all’educazione dei figli e alle faccende
domestiche.
Durante l’estate si andava a villeggiare dai nostri nonni materni Giuseppe ed Anna
Cech. Durante alcuni anni precedenti la prima guerra mondiale, cioè nel 1911, 1912 e 1913, passaidei mesi felici presso gli stessi nonni a Pisino, nella loro casa ospitale, assieme ad altri parenti.Prima che io nascessi era scomparso improvvisamente, mentre cantava nel coro di una chiesa diRovigno, il mio nonno paterno Raimondo Devescovi, che abitava colà con la moglie Eufemia e i
figli. Seppi ch’egli esercitava la
professione di commerciante di tessuti, però si dedicava allaletteratura, era autore di vari racconti, che descrivevano la vita della popolazione rovignese e in
particolare dei pescatori dell’Adriatico. Egli era un uomo di grande bontà e talento.

3

2
Bianca Cech sposò a Pisino il dott Carlo Devescovi il 18 gennaio 1892. Sul giornale CorriereIstriano

l’Azione del 18 gennaio ’42 venne pubblicato l’articolo:
“Le nozze d’oro del dott.
Devescovi -
Si compiono oggi cinquant’anni da cui il camerata cav. dott. Carlo Devescovi,
apprezzato medico cittadino e patriotta della vecchia guardia, sposava a Pisino Bianca Cech, figliadel notaio dott. Giuseppe, già podestà di quel
battagliero centro d’italianità e deputato provinciale
alla Dieta di Parenzo. Fin dalla prima giovinezza i due sposi si amarono di grande affetto, che litenne uniti nella gioia o nel dolore. La famiglia è stata sempre per loro un vero sacrario, nel quale
seppero educare i figli in un’atmosfera di sacri principi patriottici, morali e rel
igiosi. Il dott. Carlo Devescovi ha dedicato le sue energie alla Cassa Ammalati, facendosi amare da tutti i suoi pazienti,ai quali, oltre a lenire le sofferenze fisiche ha saputo sempre apportare una parola amica
d’incoraggiamento e conforto; è stato membro del Consiglio Sanitario e, per quasi un trentennio,
Presidente della Camera Medica Istriana

.

L’articolo prosegue ricordando che, come presidentedel comitato “Pro Schola”, il dott. Carlo contribuì all’istituzione del liceo italiano di Pisino nontralasciando di ricordare la sua preziosa opera di medico nei vari “
campi di concentramento
dell’Austria inferiore e della Stiria
” durante la prima guerra mondiale.

3
Raimondo Devescovi

di antica famiglia rovignese “
Rigo del

Vescovo, 1340 c.a.; Tomà nato 1365 c.a.; Andrea nato1370 c.a., ed Antonio nato nel 1380 c.a., suoi fi



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Thursday, 5 August 2021 Implicazioni politiche ed economiche del mancato processo di unificazione dell'Italia nell'Adriatico orientale

Questo mese lo dedico a trascrivere interessanti brani del saggio "L’OLTRE ADRIATICO, UN OBIETTIVO MANCATO NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE-Implicazioni politiche ed economiche", scritto da Arnaldo Mauri dell'Universita' Statale di Milano nel 2011.

Lo trovo molto ben scritto e ne condivido tutto il contenuto.

Mappa del Regno napoleonico d'Italia nel 1807, con incluso l'oltre Adriatico (Istria e Dalmazia). Nel 1808 vi fu incluso anche il Trentino e l'area altoatesina di Bolzano (in verde).

.
L'OLTRE ADRIATICO E L'UNIFICAZIONE ITALIANA

Il Regno d’Italia napoleonico

Si è visto come il lento e graduale processo costitutivo della Nazione Italiana abbia avuto inizio in epoca medioevale come fenomeno spontaneo, che prescinde sia dalla volontà umana sia in particolare dalle decisioni politiche. Se si passa invece a considerare l’Italia non nella sua idea di identità di popolo o di identità nazionale e neppure come entità storico-geografica, ma semplicemente nella sua cornice giuridico-politica di entità statale così come concepita al presente, perveniamo, agli inizi della Storia contemporanea, esattamente al 26 gennaio 1802.

In tale data, per iniziativa di Napoleone Bonaparte, viene proclamata a Lione dalla Consulta straordinaria cisalpina la Repubblica Italiana che eredita dalla preesistente Repubblica Cisalpina il tricolore e un ampio territorio comprendente il Piemonte orientale, la Lombardia, la parte occidentale e meridionale del Veneto, gran parte dell’Emilia e la provincia di Massa e Carrara.La Repubblica Italiana viene successivamente trasformata in monarchia con la nascita nel marzo 1805 del Regno d’Italia sul cui trono ascende lo stesso Napoleone Bonaparte che è incoronato il successivo 24 maggio con la corona ferrea dei re longobardi.

Nasce allora, sotto tutela francese, uno Stato pienamente italiano, con capitale Milano, che, pur adottando il nome di Italia, corrisponde solo parzialmente sia alla Nazione Italiana sia all’Italia fisica o intesa come regione storico-geografica. Uno Stato del quale spesso e volentieri ci si dimentica nei discorsi che affrontano anche in questi tempi le tematiche risorgimentali e il processo di unificazione nazionale. Uno Stato, il Regno d’Italia napoleonico, che tuttavia non viene percepito allora dai suoi cittadini come una bizzarra, insensata ed artificiale costruzione politica imposta con la forza delle armi da un invasore straniero (così considerato pur se l’Imperatore francese era nato ad Ajaccio, parlava l’italiano della Corsica come madrelingua e portava un cognome indubbiamente italiano di origine toscana). E’ opportuno sottolineare a questo riguardo che il regno napoleonico riscuote vasti consensi, suscita in molti italiani grandi speranze e risveglia sopiti sentimenti di appartenenza nazionale.

Il Regno d’Italia napoleonico amplia la superficie del territorio posseduto dalla preesistente Repubblica Italiana estendendosi notevolmente verso est con l’annessione di Venezia. Questo Stato italiano nei suoi primi anni di vita - è fondamentale ricordarlo in questa sede - comprende oltre al Friuli anche le terre della sponda orientale dell’Adriatico così come le isole immerse in questo mare in precedenza appartenenti sia al commonwealth veneziano sia alla Repubblica di Ragusa.

A distanza di qualche anno il Regno d’Italia napoleonico acquisisce il Trentino e buona parte dell’odierna provincia di Bolzano.

Purtroppo, quando non si è ancora prossimi alla meta rappresentata dall’unità nazionale, che sarà raggiunta ad oltre un secolo di distanza, il Congresso di Vienna convocato dai vincitori per definire l’assetto territoriale da conferire all’Europa continentale dopo la caduta di Napoleone Bonaparte, decreta stolidamente la morte prematura del Regno d’Italia scartando una soluzione forse più intelligente e sicuramente meno impopolare rappresentata da una sua sopravvivenza sotto il saldo controllo di Vienna.

Ma la Restaurazione implementata sotto l’abile regia del cancelliere Klemens von Metternich, che mira a costruire una duratura egemonia politica ed economica austriaca sulla Penisola, diversamente da come ci si sarebbe aspettato per un minimo di onestà e di coerenza con i principi e gli intendimenti conclamati di ripristino della legalità e della situazione precedente alla Rivoluzione francese, non resuscita la gloriosa Repubblica di Venezia e gli altri stati indipendenti italiani del Settecento. Seguirà, dopo meno di mezzo secolo, la nascita dello Stato-nazione italiano rappresentato dal Regno sabaudo proclamato nel 1861. Si dovrà poi attendere la fine della prima guerra mondiale per vedere garrire di nuovo al vento il tricolore italiano sulla sponda orientale dell’Adriatico anche se, in questo caso, solo su una parte limitata di tale sponda e non durevolmente, a causa delle successive mutilazioni subite dall’Italia con il Trattato di Parigi del 1947.

Comunque va ricordato come durante la seconda guerra di indipendenza italiana la flotta franco-sarda era riuscita a incutere soggezione alla flotta austriaca e aveva occupato l’Isola di Lussino nel Golfo del Quarnaro, sbarcandovi 3.000 uomini accolti festosamente dalla popolazione tra uno sventolio di tricolori mentre i comandanti erano ricevuti con tutti gli onori dalle autorità comunali. Successivamente era stata liberata anche la vicina Cherso dopo che il presidio militare austriaco era stato richiamato sulla terraferma.

Autorevoli personaggi di Lussino, e in particolare il podestà Premuda, a causa del loro comportamento collaborativo verso i franco-sardi furono in seguito processati dopo il rientro degli austriaci a seguito dell’accordo di Villafranca. Da allora gli italofoni di Lussino, che erano maggioranza, cominciarono a diminuire riducendosi ad esigua minoranza in alcuni decenni.

L'occasione della Terza guerra d'indipendenza italiana

Sbarco a Lissa di truppe italiane, con cibo per gli affamati (copertina della Domenica del Corriere)

Ad ogni modo dopo la prima occasione maturata durante la seconda guerra d'indipendenza e andata perduta a seguito del ripensamento di Napoleone III a Villafranca, l’ultima vera occasione per l’Italia di completare l’unificazione nazionale auspicata da tutti i protagonisti del Risorgimento, un progetto di unificazione che contemplava l’annessione di tratti di costa sulla sponda orientale dell’Adriatico e di isole immerse in questo mare, non si è presentata per l’Italia, come generalmente si pensa anche a causa del non infondato - ma per gli italiani pernicioso - mito della “vittoria mutilata”, alla fine della prima guerra mondiale.

Agli inizi del XX secolo, infatti, la composizione demografica per etnie di molti territori della riva orientale dell’Adriatico, già incerta nei secoli precedenti, era stata irreparabilmente compromessa. Se la costa occidentale dell’Istria e Trieste erano ancora in larga maggioranza abitate da italiani, all’interno di questi territori, in Istria e soprattutto in Dalmazia la situazione era molto diversa e da tempo assai problematica per l’Italia.

Per quanto concerne in particolare la situazione della costa dalmata, solo la città di Zara mostrava una chiara presenza maggioritaria dell’etnia italiana. Anche nella maggior parte delle isole dalmate l’etnia italiana non deteneva più la maggioranza. Si trattava evidentemente in primo luogo del risultato naturale della somma di variabili demografiche (natalità e movimenti migratori) riguardanti le varie etnie.

L’inizio del flusso migratorio slavo verso la Dalmazia risaliva agli ultimi secoli del primo millennio mentre relativamente all’Istria poteva soprattutto essere ricondotto all’epoca della dominazione della Serenissima ed alla discutibile e comunque imprudente politica di Venezia di ripopolare indiscriminatamente con slavi, morlacchi, albanesi e greci delle isole egee, spesso profughi a causa dell’avanzata dei turchi, le aree rurali istriane che avevano subito un calo di popolazione a causa del fenomeno dell’urbanizzazione o di epidemie portate dalle navi provenienti dal Mediterraneo orientale. Il flusso migratorio era destinato ad irrobustirsi notevolmente sotto il dominio austriaco.

Non si deve omettere di aggiungere che entravano in gioco anche gli effetti della politica di assimilazione e snazionalizzazione seguita dall’Austria-Ungheria, principalmente a partire dalla la terza guerra di indipendenza. Una politica di snazionalizzazione che si avvaleva anche della preziosa collaborazione del clero cattolico dal momento che le massime cariche nelle gerarchia ecclesiastica erano state opportunamente affidate ad elementi ostili al gruppo etnico italiano.

Possiamo invece affermare, con il senno di poi, che fu forse proprio la terza guerra di indipendenza italiana ad offrire al Risorgimento l’ultima chance perconseguire un’unità nazionale comprensiva delle terre della sponda orientale dell’Adriatico. Duole costatare come allora un obiettivo che sembrava a portata di mano non fosse stato raggiunto nonostante le favorevoli premesse e ciò a causa della deludente performance dell’esercito evidenziata dallo smacco di Custoza e dell’umiliante e del tutto imprevedibile sconfitta subita dalla flotta italiana ad opera di quella austriaca nello scontro navale di Lissa del 1866.

A questo riguardo è necessario aggiungere che la flotta italiana era presente nelle acque di Lissa non per compiere una mera esibizione di forza al centro dell’Adriatico, ma con il preciso compito di proteggere le operazioni di sbarco di militari italiani sull’isola. L’Italia intendeva infatti prendere possesso di un’isola dalmata dove l’etnia italiana aveva una significativa presenza e dove già gli isolani si accingevano a festeggiare lo sbarco del contingente italiano.

Poi ci fu l’improvviso micidiale attacco da parte della flotta austriaca che evidentemente aveva messo da parte l’atteggiamento di massima prudenza adottato durante la seconda guerra di indipendenza. La marina militare austriaca continuava a contare molti italiani fra ufficiali e marinai nei propri equipaggi e la flotta vittoriosa nello scontro navale di Lissa era comandata dall’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff, già brillante allievo dell’Accademia navale imperiale di Venezia.

D’altra parte il governo italiano sin dai tempi di Cavour, durante la seconda guerra di indipendenza, aveva ben compreso la posizione dell’Inghilterra, favorevole in linea di massima alla spinta risorgimentale per l’unità d’Italia, ma sempre vigile sulla questione del dominio dei mari e poco disposta a rinunce e concessioni al riguardo. L’Italia si muoveva, conseguentemente, in questo scacchiere con molta prudenza monitorando attentamente anche le mosse britanniche. Il governo di Londra non avrebbe probabilmente battuto ciglio se l’Italia, grazie ad una vittoriosa campagna militare di Garibaldi proseguita oltre l’arcoalpino, fosse entrata inopinatamente in possesso dell’intero Tirolo e in aggiunta del Vorarlberg o se ci fosse stata l’annessione di qualche isola nel Golfo del Quarnaro (ad esempio Cherso e Lussino) o al largo della costa dalmata come ad esempio Lissa. L’Inghilterra mostrava invece inequivocabilmente di non gradire una consistente e generalizzata espansione dell’Italia sulla costa orientale dell’Adriatico e di non essere affatto disposta ad accettare che questo mare diventasse un golfo molto più italiano di quanto lo fosse stato in passato un golfo veneziano.

Infatti Venezia estendeva il proprio dominio su buona parte della costa orientale, ma non controllava la costa adriatica della penisola italiana e neppure i grandi porti di Trieste e di Fiume. Invece il Regno d’Italia di recente nascita aveva aspirazioni molto più ambiziose che riguardavano entrambe le coste del Mare Adriatico. Il medesimo atteggiamento sarà tenuto dalla Gran Bretagna anche dopo l’annessione italiana di Trieste, Fiume e Istria al termine della prima guerra mondiale. Si comprende chiaramente quindi in quest’ottica la mancanza di entusiasmo e persino la contrarietà palesate dal governo britannico nel rispettare i precisi impegni riguardanti l’assetto della sponda orientale adriatica previsti dal Trattato di Londra del 1915 sia i motivi dell’appoggio fornito dai servizi segreti inglesi nel periodo infrabellico all’organizzazione terroristica croato-slovena di ispirazione nazionalistica, denominata TIGR (Trst, Istra, Gorica, Rijeka) che operava in Venezia Giulia contro gli italiani.

1943 mappa dei distretti aerei del Regno d'Italia, con i massimi confini italiani ottenuti nell'Oltre Adriatico

La Gran Bretagna mantenne sostanzialmente una posizione di ostilità rispetto alla presenza italiana in Adriatico anche dopo il secondo conflitto mondiale, dapprima nella fase di definizione del confine italo-iugoslavo e successivamente nella gestione del Territorio Libero di Trieste istituito dal Trattato di Parigi del 1947 e mai realizzato anche per il fatto che la Zona B era stata affidata in amministrazione ad una delle parti interessate in situazione di chiaro conflitto di interessi. Nella stessa Zona A gli inglesi, ai quali spettava la carica di governatore non assunsero un atteggiamento benevolo verso il gruppo etnico italiano che pure rappresentava la larga maggioranza della popolazione complessiva e repressero con estrema durezza le manifestazioni patriottiche triestine del 1953. In quell’occasione le forze dell’ordine aprirono il fuoco contro i manifestanti provocando la morte di sei giovani.

Si è affermato in precedenza che gli infausti esiti delle battaglie di Custoza e di Lissa furono opposti rispetto a ragionevoli attese fondate sul confronto delle forze in campo. A questo punto sarebbe interessante immaginare uno scenario alternativo nell’ipotesi di un pieno successo militare italiano e di conseguenti più consistenti acquisizioni territoriali a seguito delle tre guerre di indipendenzacontro l’Austria. In questa visione storica controfattuale si configura una situazione, che non era sconsiderato congetturare ex ante: l’Italia avrebbe potuto annettersi non solo il Lombardo-Veneto, ma anche il Trentino ed una consistente porzione dei territori già veneziani dell’oltre Adriatico.

L’Italia e l’Adriatico nell'Ottocento, dopo il Congresso di Vienna

Ma ritornando al Congresso di Vienna del 1814-15 è opportuno ricordare che il nuovo assetto politico conferito all’Italia dai vincitori di Napoleone, contrassegnato dalla costituzione del Regno Lombardo-Veneto e del Regno di Illiria, non intacca di fatto l’unità economica eculturale delle terre italiane che si affacciano sull’Adriatico conseguita nel 1805 con la nascita del Regno d’Italia napoleonico e conservata dopo la creazione delle Province Illiriche sotto un’amministrazione francese, che era oltretutto esercitata in larga parte a mezzo di funzionari italiani.

La medesima situazione viene mantenuta anche dopo successive riorganizzazioni amministrative territoriali decise a più riprese dalle autorità diVienna. L’Austria tuttavia non accoglie le suppliche degli italiani di Dalmazia miranti a raggruppare sotto un unico governo, sottoposto alla corona imperiale, tutti i territori che potevano essere considerati italiani per lingua, storia e cultura situati sulle due sponde dell’Adriatico con il pensiero recondito di creare, almeno di fatto, una struttura dualistica austro-italiana.

Le stesse autorità viennesi difendono, d’altro lato, l’autonomia della Dalmazia respingendo con fermezza le reiterate e pressanti rivendicazioni croate miranti a inglobare questa contesa regione nel Regno di Croazia e Slavonia. Il governo di Vienna respinge anche la richiesta formulata da autorevoli esponenti della comunità slovena, di unire Trieste e l’Istria alla Carniola motivando la propria decisione sulla diversità presente nelle etnie prevalenti nelle due aree.

Solo la Terza guerra di indipendenza, seguita dall’annessione del Veneto all’Italia, genera un distacco traumatico da Venezia delle comunità italiane della riva orientale dell’Adriatico. Un distacco che viene sofferto non solo a Venezia e nel Veneto, ma soprattutto in Istria e in Dalmazia dove ancora molti fra gli abitanti si sentono orfani della Serenissima e rimpiangono l’immagine rassicurante del glorioso gonfalone di San Marco. Vengono repentinamente tagliati legami secolari fra le due sponde dell’Adriatico riguardanti la cultura, la scuola, la pubblica amministrazione, la marina militare e mercantile, la finanza, il commercio, l’agricoltura e l’industria. Negli anni successivi, poi, per effetto di guerre, trattati internazionali, decisioni politiche interne di ordine amministrativo, politiche di assimilazione etnica e snazionalizzazione, mutamenti della composizione etnica causati da fattori demografici si è arrivati ad una definitiva rottura di tale unità.

1942 mappa dettagliata dell'Oltre Adriatico settentrionale, unito al Regno d'Italia

I vaneggiamenti di certi nazionalismi

Le ragioni addotte alla base delle rivendicazioni territoriali dai vari nazionalismi attuali appaiono eterogenee dal momento che ognuno sceglie e propaganda gli argomenti, non sempre validi e non sempre coerenti fra loro, di volta in volta reputati più opportuni appigliandosi alla geografia fisica, alla geopolitica, alla storia, all’economia, alla religione, alla distribuzione sul territorio dei gruppi etnici, alla genetica, alla toponomastica attuale o passata, all’idioma più diffusamente parlato e infine alle radici vicine o lontane, documentate o presunte di tali idiomi. Non infrequentemente poi si ricorre disinvoltamente ad argomentazioni pretestuose e ad interpretazioni arbitrarie di eventi storici e di dati demografici, ad anacronismi nell’uso dei toponimi, oppure ad apporti che sono frutto di fantasia o infine a veri e propri falsi.

Come quando si sostiene che i popoli che abitavano nell’antichità l’area danubiano-balcanica come i daci, gli illiri, i macedoni ed i traci appartenessero tutti alla grande famiglia slava o fossero comunque molto affini agli slavi. A personaggi storici di spicco come Alessandro Magno, Diocleziano, Giustiniano e Marco Polo sono state attribuite da alcuni autori -imbevuti di nazionalismo croato- origini slave. La battaglia navale di Lissa del1866 è presentata come una schiacciante vittoria della flotta croata (de facto) su quella italiana.

Il mondo accademico è stato coinvolto in questi scontri fra nazionalismi e storici, geografi, etnologi, filologi e genetisti si sono sentiti spesso in dovere di mobilitarsi al servizio della politica per offrire supporto e legittimazione alle rivendicazioni territoriali del proprio paese. Questa strumentalizzazione della storia e di altre discipline accademiche ha causato aspri dibattiti fra ricercatori e talora una riprovevole dequalificazione degli studi.

E’ preoccupante costatare chei testi scolastici non sono immuni da queste strumentalizzazioni nazionalistiche. Maria Donkova, in un articolo intitolato “Cliché nazionalistici e memoria storica” lamenta ad esempio che ancora oggi in Bulgaria si parli costantemente e caparbiamente di “terre bulgare” anche con riferimento ad eventi storici risalenti all’antica Tracia e a molti secoli prima della calata dei bulgari verso la penisola balcanica. La medesima osservazione potrebbe, tuttavia, essere rivolta ad altri paesi; in particolare potremmo esprimere una nota di biasimo riguardo a Croazia e Turchia dove, disinvoltamente e sistematicamente, si persevera nell’etichettare con l’aggettivo “croato” o “turco” reperti archeologici, edifici, manufatti ed opere d’arte del passato risalenti all’antichità classica o comunque ad epoche anteriori all’insediamento dei rispettivi popoli nelle terre dove oggi risiedono e che sono invece inequivocabilmente riferibili all’ingegno, all’estro, al lavoro ed all’eredità culturale di altri popoli che li avevano preceduti.


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Thursday, 1 July 2021 Veneti (ed Istriani-Giuliani) d'Etiopia

Pochi sanno che ci furono alcuni istriani e giuliani che si trasferirono in Etiopia, dopo che fu conquistata nel 1936. Infatti fu creato nel 1937 un ente chiamato "Veneto d'Etiopia", che promosse l'emigrazione di veneti, istriani e giuliani nell'appena costituito "Impero italiano" nell'Africa Orientale Italiana.

I seguenti paragrafi sono tradotti parzialmente da una pubblicazione di Haile Larebo dell'Universita' di Londra (THE MYTH AND REALITY OF EMPIRE BUILDING:ITALIAN LAND POLICY AND PRACTICE IN ETHIOPIA 1935-1941 - https://eprints.soas.ac.uk/33817/1/11010607.pdf) nel 1990:

Mappa del 1940 dove appare Gimma nel governatorato Galla-Sidamo dell'Etiopia italiana

Vicende storiche

Dopo la storica fondazione dell’Impero del 1936 il Ministero dell’Africa Italiana, per incentivare la colonizzazione demografica dei nuovi territori conquistati in Etiopia, costituì gli enti “Veneto d’Etiopia”, nel territorio dei Galla e Sidama del Gimma, “Puglia d’Etiopia” nell' Harar e “Romagna d’Etiopia”, nel territorio Amara dello Uogherà.

Vennero comunque create rapidamente, già nel 1937, alcune aziende agricole (ca. 17000 ha) a concessione temporanea, per provvedere al fabbisogno alimentare dei militari e operai presenti in Etiopia. Il già citato Manetti riferisce come, intorno ad ogni presidio, si fossero creati spontaneamente, fin dai primi tempi dell’occupazione, orti destinati a completare le mense di ufficiali e soldati con verdure fresche. Il Ministero dell’Africa Italiana stese un piano di massima per organizzare razionalmente la colonizzazione, in modo da produrre un’economia agricola in grado sia di sopperire alle necessită dell’Impero sia di esportare verso la madrepatria. Vennero creati localmente Uffici Agrari con aziende sperimentali, con l’appoggio dell’Istituto Agricolo per l’Africa Orientale di Firenze͘.

Erano previsti quattro tipi di colonizzazione:

– 'Colonizzazione industriale' con grandi latifondi (da 500 a 3000 ha) affidati a compagnie per la produzione di piante industriali, coltivati da indigeni sotto sorveglianza italiana.

– 'Colonizzazione capitalistica', con terreni da 50 a 150 ha, acquistati con propri capitali da agricoltori, con appoggio di tecnici ed agronomi italiani e generalmente l’uso di manodopera indigena.

– 'Piccola colonizzazione', con terreni di 10-15 ha, per i reduci di guerra e per gli operai che vi avevano collaborato.

– 'Colonizzazione demografica', diretta da Enti di Colonizzazione autonomi, creati sulla precedente esperienza italiana in Libia, finanziati da banche e altri enti assistenziali; ogni Ente inviava un certo numero di capifamiglia scelti nell’ambito di una stessa regione; la terra era all’inizio coltivata in comunità, ma si prevedeva che in seguito, una volta che il capofamiglia si fosse sistemato ed avesse avviato i lavori, fosse raggiunto da moglie e figli e la terra divisa ed affidata ai gruppi familiari.

I primi (e unici) Enti di questo tipo ad essere creati furono il “Romagna d’Etiopia”, il “Veneto d’Etiopia”, il “Puglia d’Etiopia”. Si progettavano anche il "Piemonte d'Etiopia", "Sicilia d'Etiopia", "Marche d'Etiopia", "Liguria d'Etiopia" ed "Aosta d'Etiopia".

Si tendeva infatti a ricostruire all’interno dell’Etiopia gruppi compatti di corregionali, che non sentissero eccessivamente lo sradicamento dai luoghi di origine. Si ebbe inoltre cura di inviare famiglie con genitori ancora in grado di procreare ma con figli già in grado di collaborare ai lavori agrari. Si sceglievano braccianti con famiglie numerose, a cui si consegnavano, al momento della immissione nel fondo, casa, attrezzi, bestiame. Era il concetto già applicato per la Bonifica Pontina. Il fondo veniva prima coltivato dai coloni a salario da parte dell’Ente; una volta diventato produttivo (trattandosi di terreni incolti, occorrevano in genere almeno due anni) si passava a mezzadria, con anticipo da parte dell’Ente delle spese sostenute per la messa in valore dei campi e per le colture. Infine, poteva essere riscattato ratealmente dal colono. Il prezzo pagato dalle famiglie per il riscatto avrebbe permesso all’Ente il recupero delle spese sostenute͘.

I coloni incapaci o indegni perdevano la concessione. Infatti, la piena proprietà era prevista non solo dopo il completo pagamento delle rate, ma anche dopo l’attuazione di una serie ben determinata di obbligazioni di carattere tecnico͘ I contratti relativi ai rapporti tra Ente e coloni si basavano sostanzialmente sulla precedente esperienza messa in pratica durante la colonizzazione della Libia, con l’Ente per la colonizzazione della Cirenaica.

Le abitazioni erano costruite con precise norme igieniche e strutturali, per poter sopperire alle difficoltà ambientali: fornite di impianti igienici con bagno o doccia, di impianti di ventilazione dell’aria, di zanzariere e protezioni contro serpenti, roditori e soprattutto contro le terribili termiti. Le sorgenti erano protette e le acque luride disperse in profonde fosse settiche.

Accanto agli Enti regionali c’erano Enti Assistenziali per gli Indigeni, che si occuparono anche della costruzione di abitazioni per i salariati locali, che riprendevano lo schema tradizionale, ampliandolo ed adeguandolo a livelli costruttivi più moderni; ogni tucul disponeva di circa 160 m2 di terreno per orto e bestiame͘. L’affitto era molto modico, gratuito per i più indigenti͘ In base al Regio Decreto 2466 del 12 novembre 1936, il piano regolatore urbanistico prevedeva separazione tra il quartiere italiano e quello indigeno.

La possibilità di ricevere uno stipendio come lavoratore agricolo (o come operaio) e di avere un’abitazione e un piccolo appezzamento compensava i problemi legati all’abolizione della schiavitù: lo “schiavo” era infatti in pratica un servo che per tutte le sue necessità materiali si appoggiava al proprietario, senza il quale non avrebbe avuto alcuna risorsa.

Puglia d'Etiopia

Il primo Ente regionale ad essere creato fu il “Puglia d’Etiopia”, istituito con Regio decreto del 6 dicembre 1937. Finanziato dal Banco di Napoli, dall’Istituto nazionale fascista della Previdenza Sociale e dagli enti provinciali pugliesi, l’Ente aveva sede a Roma.

A sud-ovest di Dire Daua, in zona dell’Harar, tra Asba Littoria (che attualmente ha ripreso il vecchio nome di Asba Tafari) e Bedessa vennero sistemate 400 famiglie pugliesi, i cui primi capifamiglia giunsero già nel 1938. La Guida per l’Africa Orientale Italiana fa notare come a 17 km da Bedessa stesse sorgendo la città di fondazione detta Bari d’Etiopia. Si trattava di un progetto del pugliese Saverio Dioguardi, architetto di altre due cittă di fondazione per l’Opera Nazionale Combattenti: Olettà Ghennèt e Biscioftu (che prese nel tempo il nome di Debra Zeit e attualmente Biscioftu) presso Addis Abeba.

La cittadina “Bari d’Etiopia” comprendeva Residenza, un padiglione di ospedale, Poste e Telegrafi, caserma dei Carabinieri, ovviamente acquedotto, camionabile verso Arba, 250 case coloniche. Il 7 dicembre 1938, come documenta un filmato dell’Istituto Luce il Viceré Amedeo d’ Aosta visito' la zona, dove giă, si dice, erano stati dissodati e messi a coltura 600 ha di terreno.

Si iniziò anche la costruzione della Lecce d’Etiopia, a Ghelemsò, cioè nella stessa zona, ma l’inizio della 2ᵊ guerra mondiale bloccò evidentemente ogni lavoro.

Veneto d'Etiopia

Oltre 400 famiglie venete furono installate nel 1940 presso Gimma nel Galla-Sidamo, ma al momento non è dato conoscerne altri dettagli, se non che ne era stato approvato lo Statuto e lo schema di convenzione per il funzionamento; ma la data di fondazione è talmente a ridosso dalla scoppio della seconda guerra mondiale che i lavori dovettero essere rapidamente bloccati. Tra di loro vi erano circa 30 famiglie istriane ed alcune giuliano-dalmate. Anche se la loro fu una limitata presenza, ottennero risultati nella loro opera di colonizzazione che furono apprezzati (https://numismatica-italiana.lamoneta.it/moneta/W-ME61Q/90).

L'Ente di Colonizzazione Veneto di Etiopia (ECVE) era inizialmente presieduto dall'aristocratico bergamese Giacomo Suardo (1883-1947), un uomo con un colorato background politico e poi vicepresidente della Camera Alta, (iI Senato). Lo scopo principale di questo ente era di stabilire nel più breve tempo possibile un numero massimo possibile di famiglie coloniali (originarie dal Triveneto) come piccoli proprietari di aziende agricole: l'obiettivo iniziale era di 1.000 famiglie nel governatorato entro un periodo di sei anni. Il punto di vista ufficiale era che nel giro di pochi anni i coloni, con il sostegno dello Stato e con condizioni economiche favorevoli, sarebbero stati abbastanza forti da controbilanciare la popolazione locale etiope e rendere completamente italiano l'Impero di fatto oltre che di diritto.

Nel marzo 1938 fu fatta l'pprovazione a Roma del disegno di legge: Conversione in legge del Regio decreto-legge 6 dicembre 1937-XVI, n. 2314, relativo alla costituzione dell'Ente di colonizzazione del "Veneto d'Etiopia".

Il vasto Governatorato del sud-ovest, Galla-Sidamo, assegnato per insediamento agli italiani del Triveneto, godeva di ottime condizioni agrarie. Comprendeva aree di ricca coltivazione che produceva tutti i tipi di cereali, caffè e cotone. Mario dei Gaslini lo descrisse come "forse il più adatto in tutta l'Etiopia per numerosi e graduali insediamenti nazionali", un punto di vista condiviso dal giornalista Polson Newman, che lo ha visto come "la migliore regione per l'insediamento" dove il suolo era di "eccezionale qualità" e il clima più adatto agli europei".

Eppure la colonizzazione -tramite l' ECVE- nell'area Galla-Sidamo procedette a passo lento. Questo era dovuto soprattutto perché il territorio è stato l'ultimo ad essere occupato militarmente dall'esercito italiano ed era poco conosciuto dagli italiani nonostante la presenza da diversi decenni della "Missione della Consolata", che ha svolto un ruolo significativo nell'occupazione. E va ricordato che c'erano poche strade ed era molto lontano dal mare. Inoltre nel 1940 il presidente dell'ECVE, Renzo Morigi (ex segretario del Partito Fascista), era un politico che aveva poche capacità imprenditoriali e quasi nessun programma tangibile.

Durante l'amministrazione coloniale italiana Gimma era la sede del Governatorato di Galla e Sidamo. La località venne scelta a causa della sua centralità rispetto al territorio del Governatorato e la città venne praticamente fondata ex novo inglobando un vecchio centro indigeno chiamato "Hirmata", ove era un popolare mercato, secondo un piano regolatore che prevedeva di creare una città residenziale dotata di tutti i servizi in grado di soddisfare le esigenze di una sede di Governatorato. Già nel 1939 la città di Gimma aveva 15.000 abitanti, dei quali almeno 5.000 italiani (quasi un migliaio erano veneti, istriani e giuliani).

Nella zona di Gimma risultavano nel 1938 già attive anche la Colonia “Cavalieri di Neghelli” di 100 ha, fondata nel 1937, con un centro sperimentale agricolo; un Centro Sperimentale dell’Ufficio Agrario a Malcò con terreno di 100 ha, coltivato dalle “Pattuglie del grano”, istituite dalla Federazione dei Fasci del Galla-Sidamo per la coltivazione di vari prodotti. Si trattava però di “piccole colonizzazioni”͘ di tipo paramilitare, molto legate al partito fascista.

I governorati Harar e galla-Sidamo erano completamente pacificati -dalla guerriglia etiope degli 'arbegnoch"- ai primi del 1940 (https://issuu.com/rivista.militare1/docs/etiopia-1936-1940-testo), per cui le 400 famiglie di veneti ed istriani della colonia "Veneto d Etiopia" erano in buone condizioni economiche, sviluppando con successo le loro proprieta' agricole.

Purtroppo nel 1941 tutto ando' perso colla guerra ed il ritorno degli etiopi sostenuti dalle truppe inglesi.

Romagna d'Etiopia

Ampiamente documentato, anche grazie alla pubblicazione di Enrico Paolini e Davide Saporetti, "La Romagna in Etiopia", è invece l’Ente romagnolo (sul quale, a quanto risulta dalla stessa pubblicazione, parecchio materiale inedito dell’Archivio Africano di Gian Carlo Stella).

Anche in questo caso, furono 400 le famiglie romagnole inviate nel territorio dell’Amhara͘. Il 22 marzo 1938 partì il primo scaglione, da Predappio (quella vera) per andare a creare la "Predappio d’Etiopia͖" e poi era in nascere una "Forlì d’Etiopia".
Avrebbe dovuto essere creata anche una "Ravenna d’Etiopia", ma la faccenda restò in cantiere: era scoppiata la seconda guerra mondiale. Dell’Ente era presidente il forlivese Arnaldo Fuzzi, di cui era vice Demetrio Francesconi di Rimini, e direttore generale Guido Savini, pure di Rimini.

Grazie alle ricerche recentemente pubblicate dell’architetto Giancarlo Gatta, è stato possibile individuare il sito dove con ogni probabilità era stata creata la Predappio etiopica, a pochi chilometri a nord-est di Dabat, cioè presso Gondar. L’arch͘itetto Gatta ha infatti individuato, tramite ricerca satellitare, un piccolo abitato la cui pianta corrisponde perfettamente al nucleo centrale del progetto dell’arch͘itetto Amerigo Bandiera.

Tale progetto prevedeva due torri accanto all’ingresso principale, quello proveniente dalla strada Dabat-Debarq (ovvero Gondar-Axum) destinati alle Camicie Nere e alla sede dei Fasci: il centro si sviluppava a semicerchio, con le strade disposte intorno a ventaglio. Era fornito di tutti gli edifici principali destinati alla collettività: scuole, Poste e Telegrafi, chiesa, impianti sportivi e cinema, ospedale, luoghi di ristoro, ecc. che si irradiavano intorno alla grande piazza rettangolare ed ai numerosi portici.

Non a caso Curzio Malaparte, che visitò Dabat durante il suo percorso in Etiopia nel 1937, notò come, a differenza dei villaggi quasi improvvisati creati dai pionieri con materiali di risulta, si trattasse di un vero e proprio “villaggio romagnolo, dai muri di pietre a secco, disegnato con arte estrosa e insieme precisa, con quella poca cura dello spazio che è un dono dei Romagnoli, e a me toscano, abituato alla gelosa parsimonia che i contadini toscani han dello spazio, appare come un segno del loro istinto d’abbondanza,della loro generosa natura. In Etiopia lo spazio non manca.”

Forli d’Etiopia era costituita da 64 case coloniche, con relativi poderi di circa 30/50 ha, con impiego anche di lavoranti indigeni salariati. Un’altra sede curata dall’Ente romagnolo aveva sede ad Ambo, nel Galla-Sidamo, dove venivano effettuate colture sperimentali.


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Thursday, 3 June 2021 Iniziali mire espansionistiche italiane nei Balcani (ed altrove) nell'Ottocento

L'Italia si era appena unificata nel 1861 quando iniziarono le prime mire espansionistiche del "Regno d'Italia". Alcune furono nei Balcani: infatti inizialmente si guardava alla Tunisia come sfogo emigratorio ed all'Africa Orientale per possibili colonie, ma con il passare degli anni, in uno spazio di tempo comunque ristretto nell'Ottocento, le mire espansionistiche italiane furono rivolte anche ai Balcani.

Ne è dimostrazione lo studio che il maggiore Osio ed il comandante di Marina Aminjon prepararono in relazione all'eventualità di operazioni militari in Albania, contro l'Epiro. lo studio -secondo l'ARCHIVIO DELL'UFFICIO STORICO DELLO STATO MAGGIORE ESERCITO (AUSSME)- fu fatto nel 1876. In esso si prospettava l'occupazione dell'isola di Corfu' come base operativa per controllare la regione ed anche per debellare il contrabbando nell' Adriatico.

Lo storico Federico Imperato scrive che: "L'apice di queste ambizioni di espansione nell' Adriatico meridionale si ebbe con la missione militare marittima sulle coste epiroti e albanesi, che si svolse nell'estate del 1876 e vide impegnati contingenti della marina e dell'esercito, sotto la guida del capitano di vascello Vittorio Arminjon e del maggiore Osio. Il resoconto della missione individuava in Prevesa, Valona, Durazzo e Corfù “le posizioni che corrisponderebbero meglio alle esigenze della politica italiana ed a quelle della nostra futura grandezza militare e commerciale”; in particolare, Corfù era considerata “senza dubbio la chiave dell'Adriatico” e per ottenere il suo possesso era necessario organizzare uncorpo di spedizione, la cui preparazione avrebbe implicato la militarizzazione di diverse basi nell'Adriatico meridionale, nello Ionio e persino nel Tirreno.

Testo integrale del Rapporto della Missione di Arminjon ed Osio, datato Brindisi 8 settembre 1876 :

'.......Il porto che dalla sua stessa posizione sarebbe indicato come punto di partenza della spedizione è senza dubbio Brindisi; ma, sia per affrettare il concentramento ferroviario delle truppe, sia per facilitare le operazioni di imbarco, sia infine per rendere possibile il segreto, sarà forse conveniente stabilire parecchi punti di partenza, scegliendoli negli arsenali e nei principali porti del commercio, sia nell' Adriatico che nel Tirreno, e combinare le cose in modo che le diverse navi di trasporto e la flotta di battaglia potessero trovarsi a giorno ed ora stabilita in un dato punto di convegno.......'

Il disegno strategico che sottintendeva alla relazione di Arminjon e Osio prevedeva il dominio italiano sull'Adriatico grazieal controllo che la Marina avrebbe detenuto sulla costa albanese,da Prevesa a Durazzo, alla conquista dell'altro cardine della porta adriatica, Valona, che avrebbe permesso l'estensione di una piena influenza sul canale d'Otranto e al possesso dell'isola di Corfù, vi-sta come la grande base navale da integrare a Taranto. Da parte del Governo di Roma, tuttavia, l'idea alla base del concetto geografico- politico-militare contenuto nel rapporto di Arminjon e Osio suscitò un interesse trascurabile"

Questo studio -va precisato- fu molto importante quando nel 1914 le truppe italiane occuparono l'Albania meridionale durante la Prima Guerra Mondiale (vedasi mappa sopra).

Inoltre nel 1884, il cap. Alfonso Carini compilò dei "Cenni monografici su Salonicco" per l'AUSSME: i documenti contengono ipotesi sulle possibilità di sbarco e di operazioni militari.

E dal 1879 al 1885 furono raccolti dal citato Ufficio dello Stato Maggiore una serie di dati relativi alla situazione politica e militare della Romania che fanno prevedere ipotesi di interventi militari.

Seguirono tutta una serie di relazioni e studi, compilati da ufficiali e da addetti militari italiani residenti in tali nazioni.

Ovviamente questo era in funzione di occupare territori balcanici dell'Impero Ottomano, in profonda crisi nella seconda meta' dell'Ottocento. Infatti nel 1878 terminò la guerra russo-turca con una sconfitta schiacciante dell'impero ottomano. Di conseguenza, i possedimenti ottomani in Europa si restrinsero drasticamente: la Bulgaria divenne un principato indipendente all'interno dell'impero; la Romania raggiunse la piena indipendenza; anche Serbia e Montenegro ottennero l'indipendenza, ma con territori più piccoli. Nello stesso anno, l'impero austro ungarico occupò unilateralmente le province ottomane di Bosnia-Erzegovina e Novi Pazar. Conseguentements Il giovane Regno d'Italia vide la possibilita' di annettere territori balcanici, specialmente in Albania.

Comunque questi tre studi (in Albania, nella parte greca della cosiddetta Turchia europea ed in Romania) erano complementati da tutta una serie di studi su possibili interventi italiani in aree coloniali.

Infatti indubbiamente l'Italia post-unitaria fu, per decenni, impegnata a risolvere i molti e seri problemi interni legati proprio al processo di unificazione. Non mancarono, tuttavia, spinte consistenti per la definizione di una concreta politica coloniale.
Questa constatazione nasce dalla consultazione di una serie di documenti (ripetiamo) conservati presso l'Archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito.

I documenti erano di diversa natura, e facevano parte di carteggi diversi. Ma, estrapolati e letti assieme, danno la netta sensazione di come una volontà coloniale - lenta, graduale e costante nel tempo - si sia affermata in Italia ancor prima di Assab e di Massaua in Eritrea.

A continuazione ci si soffermerà, principalmente, su alcuni documenti fino ai primi anni ottanta dell'Ottocento e sui piani operativi compilati dall'autorità militare per la progettata spedizione di Tunisi (1864). Per due motivi: per le interessanti considerazioni in essa contenute e perché, trattandosi di piani operativi, sono il risultato finale di un'idea politica che stava per essere tradotta in atto.

Primi studi. Anni Sessanta, Settanta ed Ottanta dell'Ottocento. Studi, memone, missioni politiche

I documenti derll'AUSSME relativi all'espansionismo e al colonialismo italiano di questi anni denotano una marcata e vivace politica in tal senso. Eccovi i principali:

1)- 1864. Progettata spedizione di Tunisi (leggasi in dettaglio sotto);

2)- 1867. Proposta di occupazione di Gerba (leggasi in dettaglio sotto);

3)- 1869. Tentativi in Nuova Guinea/Polinesia (leggasi in dettaglio sotto);

4)- 1875. Missione in Marocco (leggasi in dettaglio sotto);

5)- a partire dal 1880 il ten. Ettore Vespignani, il cap. Francesco Roberti, il ten. Carlo Borsarelli di Rifreddo ripresero alla mano e riunirono in studi moltissime relazioni di viaggi fatti in Africa da esploratori, da civili, da militari, pubblicate e non. Particolarmente interessanti sono gli studi raccolti dal Vespignani e relativi a itinerari seguiti dai capitani di Stato maggiore Ferret e Galimier in Abissinia nei lontani 1840-1841-1842;

6)- nel 1882 il cap. Camillo Crema fu inviato in missione, ancora in Marocco, e riportò indietro un diario ricco di informazioni, descrizioni e disegni. Sulla base delle annotazioni fatte a caldo, preparò una relazione sulla situazione politico-militare del paese nordafricano;

7)- nei primi mesi del 1884 fu approntata una relazione sulla situazione politico-militare del Sudan, in coincidenza con gli eventi che accadevano in quel paese.

1864. Progettata spedizione di Tunisi

È noto come l'aumento delle tasse avesse provocato nel giugno del 1864 una rivolta a Tunisi. La presenza nella città di una folta colonia italiana e l'accondiscendenza iniziale della Francia, che vedeva nella questione di Tunisi il rafforzamento di un'alleanza militare con l'Italia, offri al governo il pretesto per preparare un corpo di spedizione.

Il ministro della guerra, Alessandro Della Rovere, incaricò il Corpo di stato maggiore di studiare la spedizione nei minimi particolari. Contemporaneamente inviò a Tunisi il magg. Agostino Ricci, il cap. Timoteo Bettola, il cap. Antonio Milani e il commissario di guerra di 2a classe Luigi Bosio, con l'incarico di predisporre sul posto il futuro sbarco delle truppe.

Al comando del corpo di spedizione fu designato il gen. Ambrogio Longoni, come capo di stato maggiore il cap. Stanislao Mocenni. Per comporre il corpo furono scelte unità organiche : il 49o ed il 67° fanteria, il 9o battaglione bersaglieri, una batteria del 5° artiglieria e una compagnia del 1 genio. Furono stabiliti i servizi del treno, d'ambulanza, degli ospedali, e delle sussistenze, della posta e di intendenza, del tribunale militare e dei Carabinieri

Il col. Corrado Politi, che aveva precedentemente soggiornato a Tunisi, fu incaricato di scrivere una memoria operativa per lo sbarco. Al conte Sanvitale, per le sue passate esperienze in Algeria, furono richieste notizie su usi e costumi.

Le truppe furono allertate e tenute pronte a partire per destinazione ignota; furono approntati i mezzi di trasporto per le truppe, per i viveri e per i materiali. Furono forniti i nominativi di cittadini italiani residenti a Tunisi, che potevano fare da guida e da interpreti, e furono procurate e preparate carte topografiche per riconoscere il terreno.

Fu previsto anche che, a sbarco effettuato, avrebbero raggiunto il Corpo di spedizione due squadroni di cavalleria, opportunamente equipaggiati e armati in relazione al clima del paese.

Il consiglio di sanità compilò un'apposita «struzione per ligiene delle truppe». Una curiosità in materia digiene e di uniformi : per evitare gli inconvenienti prodotti dalleccessivo calore, si convenne di dare alla truppa un cappello ordinario grigio, morbido e a larga tesa, e se ne ordinò la fabbricazione. In pratica, un tipo di cappello che anticipa quello degli alpini.

Il 13 giugno il magg. Ricci, giunto a Tunisi, incominciò ad inviare rapporti e memorie per loccupazione, mentre dal Ministero della guerra gli giungevano ordini e richieste su particolari quesiti. Particolarmente interessante una memoria del Ricci spedita il 20 giugno da Tunisi. Lufficiale premetteva due condizioni per la riuscita della spedizione :
- prima condizione, un accordo politico con le altre potenze europee, o quanto meno una precisa convenzione con la Francia, per evitare complicazioni internazionali;
- seconda condizione, una intesa diretta con il bey di Tunisi, che avrebbe dovuto accettare o richiedere egli stesso in prima persona lintervento, altrimenti il corpo di spedizione, così comera composto, non sarebbe stato sufficiente a garantire il successo della spedizione, perché inevitabilmente le truppe si sarebbero trovate a fronteggiare una rivolta araba.

È soprattutto questa costante preoccupazione per latteggiamento degli arabi - troppo spesso sottovalutato dalla parte politica - che rende lungimirante l'annotazione, per il riscontro che troverà in tutti gli interventi futuri.

Non vè traccia nel carteggio di successivi provvedimenti alle osservazioni del Ricci; questi, anzi, il 17 agosto fu invitato a presentarsi al Bey in via strettamente privata, come un ufficiale italiano in viaggio per proprio conto : niente della sua missione doveva trapelare.

Negli ultimi documenti, alla data del 24 agosto, la storia si chiude: fu fermata una lettera diretta al Ricci con richiesta di informazioni, e allufficiale fu ordinato di rientrare a Torino con gli altri componenti della missione; cosa che fecero tutti il 30 agosto.

1867. Proposta di occupazione dell'isola di Gerba (Tunisia meridionale)

Il console generale generale d'Italia a Tunisi, Luigi Penna, il 15 gennaio 1867 suggeriva al ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta di occupare l'isola di Gerba (in arabo: Djerba). Dava notizie nella corrispondenza delle scarse forze a presidio dell'isola, delle attività che si svolgevano e valutava che 1 .500 uomini con tre «legni» di 2° ordine sarebbero stati suffficienti a garantire il successo dell'operazione.

Tale operazione non fu più eseguita, né v'è traccia nella documentazione dell'AUSSME dei motivi che indussero a tralasciare il progetto. Possibilmente la proposta era collegata al tentativo di occupare Tunisi di alcuni anni prima.

1869. Missione in Polinesia/Indonesia (Nuova Guinea)

Gli interessi espansionistici si spostarono man mano fino ai continenti più lontani. Il sig. Emilio Cerruti, nel 1869, stipulò una convenziohe segreta con il governo in vista di un suo viaggio in Polinesia ed Indonesia. Gli fu affidato il compito di ricercare un'isola per l'impianto di una colonia italiana. Il Cerruti identifico' la Nuova Guinea come il posto ideale.

Fu designato anche un ufficiale del genio che lo doveva affiancare nell'incarico, il cap. Giuseppe Di Lenna. Disguidi apparenti tra i Dicasteri della guerra, degli esteri e della marina mandarono a monte l'impresa: le armi e le munizioni (10 fucili e 2.000 cartucce) promesse al Cerruti non gli furono più date.

Il Cerruti promosse a lungo e con tenacia -ma senza risultati- la creazione di una colonia penale nella Nuova Guinea: ancora davanti la Commissione d'inchiesta per la marina mercantile (1881-1883) il Cerruti perorò la causa delle colonie da fondarsi dall'Italia nella Nuova Guinea e nella Polinesia. Ma tutto fu vano: egli non riuscì a convincere i suoi molti oppositori, che gli rimproveravano sopratutto l'avventatezza di giudizi e il non tenere alcun conto delle inevitabili difficoltà d'ordine internazionale (per ulteriori informazioni leggasi il mio saggio su questo tentativo https://researchomnia.blogspot.com/2014/08/la-tentata-colonia-italiana-nella-nuova.html).

1875. Missione in Marocco del cap. Giulio Di Boccard

Il cap. Giulio Di Boccard, il 6 marzo, si imbarcò sul piroscafo «Doria» per una missione in Marocco. Scopo della missione era quello di «assumere informazioni e raccogliere dati riflettenti la geografia, la struttura topografica, la statistica e la situazione politica e militare», come annotò egli stesso nel rapporto. Tutti elementi utili per preparare un piano di invasione.

Dopo un'attesa di 48 giorni - il sultano, cui doveva presentarsi, era impegnato a ricevere un'analoga missione inglese - compì escursioni nell'Angera (Aniera), all'isola di Pereghil (Perejil), a capo Spartel (Sbartel) e un viaggio a Fez, ove eseguì anche la prima fotografia panoramica della città (finora inedita e sconosciuta).


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Saturday, 1 May 2021 L’incendio della sede de “Il Piccolo” nel 1915 a Trieste

Trieste, 23 maggio 1915: L’incendio della sede de “Il Piccolo” da parte di manifestanti organizzati dai comandi militari austriaci fu l'inizio delle aperte ostilita' tra Italiani e Slavi nella Venezia Giulia. L'incendio fu successivamente "vendicato" nel 1920 col famoso incendio a Trieste dell' Hotel Balkan degli Sloveni (che era la sede delle organizzazioni slave locali).

In parole povere, furono gli slavi a colpire per primi e non gli italiani (con il Fascismo)!!! La falsificazione titina che afferma che il "Narodni Dom" (nome sloveno dell'Hotel Balkan) fu bruciato dai Fascisti italiani senza che gli slavi avessero fatto a Trieste qualcosa prima contro gli italiani, va smentita categoricamente da prove irrefutabili come espongo a continuazione.

Foto dell'incendio de "Il Piccolo" nel maggio 1915

Infatti con il seguente scritto apparso sull' "Archivio Storico Digitale PATRIA ITALIA" si ricorda questo triste evento dell'incendio de "Il Piccolo":

"Decine di manifestanti reclutati tra la 'Lega patriottica della gioventù' (composta maggioritariamente da sloveni), la quale non era stata destinata al fronte della Galizia, organizzati dai comandi militari asburgici e protetti dalla polizia, devastano ed incendiano le sedi della Lega Nazionale e della Ginnastica Triestina, fanno a pezzi i caffè frequentati dagli italiani quali lo Stella Polare, il San Marco e l’Edison, picchiano gli italiani che non riescono a fuggire in tempo, distruggono le insegne dei negozi italiani, sfregiano il monumento a Giuseppe Verdi. L’ondata di violenza raggiunge il picco in serata, quando un gruppo numeroso di manifestanti fa irruzione nella sede de “Il Piccolo”, giornale vicino alle posizioni della classe dirigente liberal nazionale italiana e dei circoli irredentisti, e con bombe incendiarie appicca il fuoco ai locali di uno dei simboli dell’italianità triestina."

Bisogna anche precisare che il 23 maggio 1915, alla notizia della dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria-Ungheria, vennero incendiati da dimostranti filoaustriaci (quasi tutti Sloveni), oltre al Palazzo Tonello dove si trovava la redazione del quotidiano -allora parzialmente irredentista- "Il Piccolo" anche l'edificio della Ginnastica Triestina, associazione sportiva irredentista e la sede della Lega Nazionale dei triestini ed istriani italiani.

Le violenze del 23 e 24 maggio 1915 a Trieste

A Trieste, in guerra da quasi dieci mesi, a metà maggio già circolavano notizie contraddittorie, ma allarmanti, su un possibile conflitto con il Regno confinante. Il 23 maggio, domenica di Pentecoste, nel primo pomeriggio si propagò in città la notizia della dichiarazione di guerra da parte dell’Italia. Rapidamente, nel centro si formarono assembramenti di cittadini principalmente sloveni, perlopiù provenienti dai quartieri popolari di Cittavecchia, San Giacomo, Barriera. La composizione sociale dei manifestanti includeva, a quel che si sa, elementi lealisti, provenienti per lo più dal ceto impiegatizio, e una variegata rappresentanza di componenti popolari, in cui un nebuloso e prepolitico attaccamento alla dinastia si confondeva con il sentimento di rivalsa sociale: erano giovani e donne, soprattutto sloveni. Tale inedita saldatura di forze sociali si tradusse in forme di violenza, esproprio di beni, intimidazioni rivolte a triestini filoitaliani e a forestieri.

La folla si scatenò contro i luoghi identificati come centri di identità italiana e irredentismo. La sede del «Piccolo», il quotidiano locale su posizioni liberalnazionali e filo-irredentiste, posto in piazza della Legna (ora Goldoni), fu oggetto di un primo assalto della folla, senza risultato. Non molto distante, una parte dei manifestanti invase e incendiò l’edificio della Lega Nazionale, società attiva nelle attività culturali e ricreative, un altro simbolo di difesa dell’italianità. Devastazioni ebbero luogo, simultaneamente, in altre parti del centro-città. Nel quartiere di San Giacomo fu dato l’assalto ad un ricreatorio della Lega; nel contempo la folla cercò nuovamente di appiccare fuoco al «Piccolo», ancora invano. Lì vicino i dimostranti infierirono allora contro il monumento a Giuseppe Verdi, inaugurato nemmeno due anni prima, preso a martellate e insudiciato. Dopodiché le violenze si accanirono contro la Ginnastica Triestina, sodalizio dedito alle attività ginnico-sportive e centro di incontro di irredenti, che fu dato alle fiamme. In questa circostanza un giovane assalitore morì, vittima della sua stessa baldanza.

Era sera quando la folla, ritornata davanti alla sede del «Piccolo», negligentemente protetta da un cordone di forza pubblica, riuscì a forzarne l’accesso, a devastare l’interno dell’edificio e a incendiarlo. La moltitudine dei dimostranti intanto si era accanita contro altri luoghi di ritrovo degli irredentisti, i caffè «Volti di Chiozza», «Fabris», «San Marco», «Stella Polare», «Edison», «Milano», assaltati, incendiati o danneggiati, e contro negozi e magazzini, invasi e saccheggiati, di triestini ritenuti simpatizzanti per l’Italia e di «regnicoli», i sudditi del Regno d’Italia residenti in citta.

Infatti l'iniziale ondata di odio anti-italiano non si era esaurita, ma, anzi, continuava abbattendosi sui Caffè triestini, tradizionali ritrovi degli irredentisti italiani: “....Gli sloveni entravano, facevano bottino delle paste, dei liquori e delle argenterie. Poi mandavano in frantumi tavoli e specchi. Infine mettevano in azione il petrolio, la benzina e le vampe. Arsero completamente il Caffè Fabris e il Caffè Portici di Chiozza: in quest'ultimo la distruzione fu così integrale che all'indomani, nell'atrio carbonizzato, non si trovò che il contorto scheletro di ferro di qualche seggiola. Devastazioni gravissime subirono anche il Caffè Milano, il Caffè San Marco, il Caffè Edison. Il proprietario del Caffè Stella Polare dovette difendere da sé il suo esercizio accerchiato da una masnada avida di rapina....” raccontava un cronista dell’epoca.

Il Caffè San Marco, fondato l’anno prima in via Battisti n°18 in un edificio di proprietà delle Assicurazioni Generali e già luogo d’incontro per eccellenza degli intellettuali della città e dei giovani irredentisti, fu completamente devastato. I soldati dell’esercito austro-ungarico chiusero il caffè, al cui interno i giovani irredentisti falsificavano passaporti per favorire la fuga di patrioti anti-austriaci in Italia, e incarcerarono a Liebenau il proprietario Marco Lovrinovichi con l’accusa di non voler combattere per l’esercito (austro-ungarico).

Il Caffè Stella Polare, al numero civico 6 di Piazza Sant'Antonio, dove tuttora si trova, riuscì parzialmente a salvarsi dall’onda vandalica, ma, scampato alla distruzione totale perpetrata ai danni di altri locali, nei mesi successivi fu soggetto di continue angherie fino a quando, nel dicembre del 1915, la licenza venne pretestuosamente revocata e il proprietario arrestato prima e confinato poi. Fu il primo caffè a riaprire nel dopoguerra, il 31 dicembre 1918.

Negozi e magazzini di triestini ritenuti simpatizzanti per l’Italia e di “regnicoli”, i sudditi del Regno d’Italia residenti in città, vennero assaliti, devastati e saccheggiati, le loro insegne furono distrutte.

Era sera quando la folla, ritornata per la terza volta davanti alla sede de “Il Piccolo”, riusciva a forzare il cordone di forza pubblica a sua difesa e a guadagnarne l’accesso, penetrando nella redazione e tipografia di Galleria Sandrinelli: evacuati redattori e tipografi, perpetrò una devastazione culminata con un rogo appiccato con bombe incendiarie che distrusse l’interno dell’edificio. Pronto fu l’intervento dei vigili del fuoco, ma fu loro impedito d’intervenire, complice lo scarso appoggio della polizia, dovuto non tanto all’imprevedibilità degli avvenimenti quanto per la connivenza con i facinorosi sloveni.

“La dinamica dei fatti dell'incendio del giornale, come tramandata da testimoni – scrive il già citato Apollonio – rivela un'azione di squadre organizzate dai comandi militari, protette dalla polizia. Gli squadristi asburgici furono reclutati fra gli aderenti alla Lega patriottica giovanile degli sloveni, che la mobilitazione non assegnò al fronte in Galizia, ma in località non distanti dalla città”.

I disordini l’indomani persero forza, anche per un più deciso intervento di gendarmi e soldati. L’ordine completo in città fu riportato il martedì. Nel frattempo le autorità austriache erano intervenute con l’imposizione dello stato d’assedio. Lo stesso 23 maggio, il governo cittadino, espressione delle forze liberalnazionali, fu commissariato.

A seguire, le associazioni irredentiste vennero sciolte e gli esponenti più in vista dell’ambiente filoitaliano furono arrestati e internati nell’interno della Monarchia come «politicamente sospetti». A migliaia, i sudditi italiani furono costretti ad abbandonare la città. I regnicoli maschi in età di servizio militare furono invece internati. La propaganda austriaca presentò i disordini del 23 maggio come un atto spontaneo di attaccamento e fedeltà agli Asburgo da parte dei triestini, seppur da deplorare per gli eccessi.

Il giorno seguente, 24 maggio 1915, fu la Società Ginnastica Triestina a essere l’obiettivo dell’orda violenta, che si scagliò contro il sodalizio dedito alle attività ginnico-sportive, in quanto centro d’incontro di irredenti. Essa, infatti, aveva pubblicato periodici che non promuovevano solo l’attività sociale, ma anche il dibattito pubblico sui temi nazionali; inoltre, i suoi atleti più promettenti gareggiavano nelle competizioni nazionali più prestigiose in Italia. L’edificio della Società fu dato alle fiamme e andarono perduti tutti i documenti e i numerosissimi libri della biblioteca. Si salvarono solo poche cose, fra le quali il quadro di Gatteri e la bandiera sociale inaugurata nel 1868. In tale assalto si registrò anche un decesso fra le file della folla rivoltosa, vittima della propria violenza e cecità. La Società Ginnastica Triestina seguì il destino delle altre associazioni irredentiste: venne sciolta nel 1915 per via della sua ispirazione filo-italiana e ricostituita con lo stesso nome nell’immediato dopoguerra.

Solo martedì 25 maggio l’intervento dell’esercito pose fine a questo saccheggio, forse non premeditato ma certamente sistematico e permesso in un certo senso dalle autorità di polizia. Un saccheggio che, come illustrato brevemente, era preludio della sopressione della libertà e dell'esistenza delle associazioni che sentivano e diffondevano l'identità italiana.

Considerazioni attuali

Significative, nel ricordo dei moti di quei giorni, sono le parole pronunciate dal presidente della Lega Nazionale Paolo Sardos Albertini il 24 maggio 1992, in occasione della consegna di una targa ricordo all’allora direttore de “Il Piccolo” Mario Quaia: “L’incendio del 23 maggio 1915 non ha segnato affatto, come invece allora molti pensarono, la fine di un’epoca. E la riprova è il fatto che tanto il giornale che la Lega Nazionale hanno proseguito il loro cammino, esprimendo in tutti questi anni l’anima italiana della nostra città”.

Concludo ricordando che la propaganda titina (come quella attuale dei nazionalisti sloveni) sempre "dimentica" il fatto che l'incendio dell' Hotel Balkan nel 1920 fu conseguenza diretta dell'incendio del quotidiano Il Piccolo nel 1915. Al massimo gli slavi "ricordano" i fatti di Spalato (dove ufficiali e marinai italiani furono uccisi da fanatici slavi) avvenuti due giorni prima dell'incendio del Narodni Dom......ma sempre dimenticano l'incendio de "Il Piccolo". Infatti alcuni esponenti fascisti triestini esplicitamente dichiararono alla fine del 1920 che "giustizia fu fatta a Trieste coll'occhio per occhio e dente per dente" (riferendosi aila loro vendetta per l'incendio del quotidiano italiano nel 1915) quando avvenne l'incendio del Balkan sloveno.

Ricordare la verita' non nuoce.....


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Thursday, 1 April 2021 Gli Italiani delle Isole Ionie (Cefalonia)

Gli italiani delle isole Jonie erano concentrati principalmente a Corfu' e secondariamente a Cefalonia. Piccole minoranze italiane si avevano anche a Zante ed Itaca (per ulteriori informazioni leggere il mio saggio http://brunodam.blog.kataweb.it/2017/10/01/isole-ionie-italiane-1941-1943/ , composto nel 2017).

Nello scritto di questo mese voglio concentrarmi su quelli di Cefalonia:

CEFALONIA

Cefaonia rimase quasi spopolata dopo le guerre coi Turchi e fu ripopolata dai veneziani nei tre secoli del loro dominio anche con alcuni coloni veneziani e con molti profughi (greci ma anche veneziani/italiani), rifugiati dai possedimenti veneziani conquistati dai Turchi nella Grecia continentale ed insulare (come Creta).

I veneziani fondarono la nuova capitale del'isola nel Seicento, Argostoli (leggasi https://docplayer.net/140079076-The-architecture-of-argostoli-a-venetian-colonial-new-town.html), che divenne il centro della venezianita' dell'isola: nel 1797 quasi tutti i suoi 9000 abitanti parlavano il "veneto da mar" e praticavano il cattolicesimo.

Storia delle Isole Ioniche

Le isole Ionie sono state un possedimento marittimo estero della Repubblica di Venezia a partire dalla metà del XIV fino al XVIII secolo. La conquista delle isole avvenne gradualmente. Le prime ad essere state conquistate furono Cerigo e l'isolotto di Cerigotto, nel 1363. Ventitré anni dopo, Corfù entrò volontariamente a far parte delle colonie di Venezia. Dopo circa un secolo, Venezia conquistò Zante nel 1485, Cefalonia nel 1500 e Itaca nel 1503. La conquista fu completata nel 1718 con la presa di Leucade. Ognuna delle isole rimase parte dei possedimenti della Repubblica di Venezia fino a quando Napoleone Bonaparte sciolse la Repubblica nel 1797.

Le Isole Ionie sono situate nel Mar Ionio, al largo della costa occidentale della Grecia. Citera, la più meridionale, è appena al largo della punta meridionale del Peloponneso e Corfù, la più settentrionale, si trova all'ingresso del Mar Adriatico. Le isole Ionie (assieme alle roccaforti veneziane di Parga, Prevesa e Vonizza sulla terraferma) furono la sola parte della Grecia a sottrarsi al dominio ottomano. Durante quegli anni le classi dirigenti si convertirono al cattolicesimo ed adottarono la lingua veneta, mentre la maggior parte del popolo continuava a parlare greco e ad essere di religione ortodossa.Il periodo sotto dominio veneziano e’ conosciuto in Grecia come Venetokratia o Enetokratia.

Il governatore delle Isole Ionie durante il periodo veneziano è stato il 'Provveditore Generale da Mar', che risiedeva a Corfù. Inoltre, le autorità di ogni isola erano divise fra veneziani e locali. L'economia delle isole si basava sull'esportazione di prodotti locali, in primo luogo uvetta, olio e vino, mentre la lira veneziana, la moneta di Venezia, era anche la valuta locale. Alcune caratteristiche della cultura di Venezia vennero incorporate in quella delle Isole Ionie. La lingua italiana, per esempio, che venne introdotta nelle isole come lingua ufficiale, venne adottata dalla classe superiore ed è ancora oggi abbastanza diffusa in tutte le isole.

Nel 1797 -dopo la caduta della Repubblica di Venezia occupata dalle truppe francesi di Napoleone Bonaparte ed il trattato di Campoformio- le isole passarono alla Francia e furono organizzate come "départments Mer-Égée, Ithaque and Corcyre". Nel 1799 l'ammiraglio russo Fëdor Fëdorovič Ušakov, alla guida di forze russo-turche, le strappò ai Francesi e nel marzo 1800 lo zar Paolo I le costituì in stato autonomo ('Repubblica Eptanese') sotto sovranità ottomana; la Repubblica Eptanese fu il primo governo semi-autonomo greco dopo molti secoli e adottò come emblema il Leone di San Marco. Nel 1807 la Francia conquistò nuovamente le isole Ionie, ma nel 1809 la Gran Bretagna, sotto la guida di Stuart e di Church, gliele ritolse tutte, tranne Corfù e nel 1815 il Congresso di Vienna avallò la creazione del protettorato britannico degli 'Stati Uniti delle Isole Ionie'. Il primo giornale edito nel nuovo stato fu la "Gazzetta delle Isole Jonie", in lingua italiana, essendo questa la lingua d'uso delle classi colte ed elevate.

Isole Ioniche (nel riquadro in alto) della Repubblica di Venezia in una mappa dell'Italia nel 1789

Curiosi sono gli articoli 4 e 5 della nuova costituzione del 1815 in cui si dice che la lingua nazionale del paese e' il greco, ma che temporanemante si usera' l'italiano quale unica lingua amministrativa, giacche' non c'e' prassi in greco. Ossia -tradotto- le elites educate alla scuola veneziana erano incapaci di redigere atti in greco, tanta era stata la penetrazione della lingua italiana.

Sempre nella nuova costituzione si parla del ruolo da dare, in futuro, all'inglese a scapito dell'italiano, come avvenne poi a Malta.

Qui sotto riporto l'elenco dei firmatari della costituzione del nuovo stato delle Isole dello Jonio:
Segnato: B. Theotoki, presidente. - Cav. Calichiopulo. - Alessandro Marietti. - Niccolò Anino Anas°. - Vettor Caridi. - D. Foscardi. - D. Bulzo. - Felice Zambelly. - Basilio Zaro. - Valerio Stai. - Giovanni Morichi. - Stefano Palazzuol Scordilli. - Anastasio Battali. - Anastasio Cassimati. - Giacomo Calichiopulo Manzaro. - Spiridione Giallina Ym Anastasio. - An.° Tom.° Lefcochilo. - Cav. Niccolò Agorosto. - Marino Veia. - Niccolò D. Dallaporta. - Spiridione Metaxa Liseo. - Pietro Caidan. - Sebastiano D Schiadan. - Daniele Coidan. - Paolo Gentilini. - Spiridione Focca Gio. - Demetrio Arvanitachi. - Dionisio Genimata. - Giulio Domeneghini. - Francesco Mazzan. - Angelo Mercati. - Giovanni Melissimo. - Marino Stefano. - Angelo Condari. - Niccolò Cavada. - Pietro Petrizzopulo. - Gio. Psoma. - Niccolò Vretto. - Giorgio Massello. - Stefano Fanarioli. - Riccardo Plasket, segretario. - Dom. Valsamachi, segretario......Ossia tutti salvo il presidente ed un paio ancora, ITALIANI. A riprova della penetrazione dei veneziani e della cultura italiana nelle isole Joniche in 4 secoli di dominio.

Nel 1848 iniziarono agitazioni nazionalistiche panelleniche nelle isole che obbligarono gli inglesi a cederle alla Grecia nel 1864.Una delle prime misure del governo greco fu la lotta all'influenza italiana, presso le elites isolane, che portarono nel 1870 alla chiusura di tutte le scuole in lingua italiana.

All'epoca del fascismo, tra i corfioti italiani vi furono simpatizzanti per il Regno d'Italia, che poi appoggiarono l'occupazione italiana dell'arcipelago durante la Seconda Guerra Mondiale promuovendo l'irredentismo italiano.

Attualmente gli "italiani"sono circa 5000 (alcuni di lontane origini maltesi), concentrati a Corfu, dove il loro unico distintivo e' la religione cattolica (invece della Ortodossa) ed i cognomi, essendosi negli anni Sessanta estinto il dialetto veneto. La piccolissima comunita' ebraica, superstite dei lager nazisti, usa un dialetto italiano detto "Italkian".

Breve Storia di Cefalonia

La presenza dei Romani è attestata a Cefalonia dai resti di qualche villa nei pressi di Skala e di Ag. Eufemia, un mosaico romano da un tempio dedicato a Posidone trovato presso la spiaggia di Vatsa (ora in un museo archeologico), mentre due importanti abitati romani evolsero già dal II secolo d.C. nella città di Same e a Fiscardo, detto in antico Panormos.

Nel Medioevo fu il centro del Thema bizantino dello Ionio. Alla fine dell'XI secolo con l'indebolimento dell'impero bizantino, l'isola conobbe le dominazione dei Normanni sotto la gestione degli Orsini e dei Tocco. Qui vi morì Roberto il Guiscardo, una deformazione del cui nome fu data al celebre porticciolo turistico di Fiskardo.

Salvo un breve periodo in cui cadde in mano agli Ottomani, dal 1500 al 1797 appartenne alla Repubblica di Venezia . Fu teatro dell'Assedio del Castello di San Giorgio. I Veneziani costruirono successivamente il Castello di Assos e fondarono la città di Argostoli.

Infatti durante la seconda guerra fra turchi e veneziani (1499–1502) la fortezza di Aghios Georgios venne assediata e ricostruita e, nel 1504, un nuovo trattato diede a Venezia il controllo di Cefalonia.

Mappa del 1688 di Argostoli (capitale di Cefalonia, fondata nel 1657)

Mentre nel resto della Grecia le popolazioni erano soggette al crudele dominio turco, le isole Ionie, sotto il dominio veneziano, godettero di un relativo benessere e diedero vita a diverse attività commerciali ed agricole tra cui la produzione dell’uva passa. Il trattato firmato con i Turchi garantiva la pace solo sulla carta, poiché Cefalonia dovette far fronte a molti tentativi di conquista che cercò di risolvere con l’edificazione nel 1593 della fortezza di Assos.

Cefalonia sotto Venezia iniziò ad incrementare il suo commercio marittimo, fino ad avere oltre 200 navi da grosso carico ed espandendo la sua zona portuale. Nel 1640 inizio' un periodo di 15 anni circa che vide l’isola di Cefalonia teatro di tensioni e faide tra i contadini e la nobiltà e tra nobili greci e nobiltà franca/veneziana.

Censimenti veneziani di quel periodo, conservati negli archivi di Venezia, parlano di una popolazione di Cefalonia che era la più numerosa delle isole dello Ionio e richiamava profughi (di discendenza veneziana) dal Peloponneso e ricche famiglie veneziane di Creta che scappavano dalla guerra contro i Turchi.

La cittadina Argostoli (creata dai veneziani e popolata da abitanti che parlavano il '"veneto da mar" ed erano cattolici) divenne ufficialmente la capitale di Cefalonia nel Settecento. È stata infatti la capitale e il centro amministrativo di Cefalonia dal 1757, a seguito di uno spostamento della popolazione dalla vecchia capitale di Agios Georgios (conosciuta anche come Kastro) per sfruttare le opportunità commerciali fornite dalla baia riparata su cui si trova Argostoli. Argostoli si sviluppò in uno dei porti più trafficati della Grecia, portando prosperità e crescita.

I francesi la occuparono alla fine del Settecento. Dopo il trattato di Campoformio con cui Venezia venne ceduta all'Austria, l'isola vide avvicendarsi dominatori francesi e britannici.

Fece parte della "Repubblica delle Sette Isole Unite", sotto protettorato russo-ottomano ma a guida veneto-greca. Fu questa la prima esperienza di autogoverno greco (durata: 1800-1807), in cui ebbero un ruolo principale i greco-veneti, tra i quali Giovanni Capodistria. Dal 1815 fece parte del minuscolo Stato indipendente degli "Stati Uniti delle Isole Ionie" costituito sotto protettorato britannico; il Regno Unito la cedette al regno di Grecia nel 1864. Da allora Cefalonia e' stata greca finora (coll'eccezione dell'occupazione italiana nel 1941-1943).

Nel censimento greco del 1907, 4.675 persone delle Isole Ionie (principalmente a Corfu' e Cefalonia) hanno dichiarato il Cattolicesimo come loro religione, circa l'1,8% della popolazione totale (254.494), mentre 2.541 (1%) ionici hanno dichiarato l'italiano come lingua madre, rendendolo la seconda lingua per numero di parlanti. La lingua italiana rimane tuttora popolare nelle isole.

Occupazione italiana di Cefalonia (1941-1943)

Durante la seconda guerra mondiale le Ionie vennero occupate dalle truppe italiane nell'aprile 1941. Successivamente il 10 agosto 1941 le isole di Corfù, Cefalonia, Zante, Leucade e alcune isole minori vennero ufficialmente annesse al territorio metropolitano italiano come parte della "Grande Comunità del Nuovo Impero Romano". Subito fu iniziato un processo di "italianizzazione" della popolazione di Cefalonia. Si stabili anche la futura creazione della "Provincia italiana dello Ionio", da crearsi a guerra finita.

Questa italianizzazione voluta da Mussolini si rifaceva ai secoli del dominio veneziano a Cefalonia.

Infatti a causa della lunga dominazione veneziana, le Isole Ionie (maggiormente Corfu' e Cefalonia) furono influenzate linguisticamente e culturalmente dall'Italia. La cultura e la lingua italiane mantennero uno status dominante tra le élite urbane istruite fino al XIX secolo - l'italiano rimase una lingua ufficiale fino al 1851 - ma le classi inferiori nelle campagne rimasero maggioritariamente "greche monolingue e monoculturali". Del resto la lingua ufficiale era dal Cinquecento l'italiano; e poi nel 1803 il greco divenne, insieme all'italiano, una delle due lingue ufficiali delle isole e di Cefalonia dopo la fine della Repubblica di Venezia. Durante il periodo veneziano l'italiano era usato per scopi ufficiali nelle isole ma era anche ampiamente parlato nelle città, mentre nelle campagne si continuava a parlare greco.

L'unica isola in cui l'italiano (veneziano) aveva una diffusione più ampia era Cefalonia, dove un numero maggioritario di persone aveva adottato il veneziano come prima lingua (secondo Kendrick, Tertius T. C. (1822) nel suo "The Ionian islands: Manners and customs"). Ossia due terzi degli abitanti dell'isola di Cefalonia e quasi tutti i cittadini della capitale Argostoli (fondata da Veneziani) parlavano il "Veneto da Mar" nel 1797 quando Napoleone decreto' la fine della Repubblica di Venezia.

Cefalonia accolse i militari italiani abbastanza favorevolmente nel 1941 e ricevette molti aiuti da Roma durante la terribile fame che decimo' la Grecia nel 1942. Del resto in quegli anni la capitale di Cefalonia (Argostoli, fondata da Andrea Da Mosto nel Seicento) non sofferse carestie e vide numerosi cittadini assistere ai corsi di italiano promossi dalle autorita' italiane. La cittadina fu immortalata mondialmente nel libro e film "Il mandolino del capitano Corelli".

Immagine di Argostoli nel 1757, quando era veneziana

La città di Argostoli viene ricordata per l'eccidio della "Divisione Acqui", dell'Esercito Italiano, da parte di quello tedesco, durante la seconda Guerra Mondiale (tra il 15 e il 26 settembre 1943) a pochi giorni dall'armistizio fra l'Italia e gli Alleati. Nel 1978 lo Stato Italiano ha eretto un Monumento ai Caduti della Divisione Acqui, che ogni anno vengono ricordati dal Presidente della Repubblica Italiana.

Nel 1953 un violento terremoto distrusse quasi interamente la cittadina di Argostoli e la ricostruzione modificò drasticamente l’aspetto della città. Oggi Argostoli è una cittadina vivace e moderna, ma la lunga dominazione veneziana è ancora presente nella tradizione locale con il Carnevale, molto sentito dagli abitanti di Argostoli, ed in qualche edificio scampato al terremoto, come la sede della "Scuola Filarmonica" e la Biblioteca.


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Sunday, 7 March 2021 L'ambiguo comportamento dei Comunisti italiani di Togliatti nella Venezia Giulia

Questo mese lo dedico ad analizzare l'ambiguo comportamento del PCI di Togliatti nei confronti della Venezia Giulia. Va ricordato che i Comunisti italiani durante la seconda guerra mondiale erano controllati da Stalin, per cui la loro fu una difficile situazione nelle terre della frontiera orientale del Regno d'Italia: essi dovevano rappresentare gli Italiani della martoriata Venezia Giulia ed allo stesso tempo dovevano ubbidire allo strapotere slavo rappresentato da Tito e dai suoi nazionalmarxisti sloveno-croati. Del resto fin dalla fine della guerra Tito impose di tollerare a tutti i comunisti un massacro di italiani nella Venezia Giulia da lui occupata: leggasi i fatti del 5 maggio 1945 nel sito https://digilander.libero.it/lefoibe/altri_appr.htm.

Ma anche dopo la frattura tra Stalin e Tito nel 1948 i comunisti italiani continuarono ad essere "controllati" dagli slavi e questo tolse loro molti voti nel Friuli-Venezia Giulia in quegli anni e nei decenni successivi. Addirittura ci furono scrittori della rivista "Il Borghese" che affermarono che Berlinguer avrebbe potuto conquistare il potere in Italia nel 1976 -col suo "compromesso storico"- se avesse avuto nel Veneto Friuli-Venezia Giulia la stessa percentuale di voti che ebbe nel resto d'Italia!

E forse anche per questo il Presidente Napolitano (l'unico Capo dello Stato italiano a essere stato membro del Partito Comunista Italiano) si potrebbe essere vendicato della "mancata vittoria" denunciando anni dopo i crimini delle Foibe. Infatti nel 2007 Giorgio Napolitano affermò che: «.. già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell'autunno del 1943, si intrecciarono "giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento" della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia». Il Presidente proseguì: «Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, ed un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di Pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una "pulizia etnica"». Napolitano affermò altresì che "quel che si può dire di certo è che si consumò - nel modo più evidente con la disumana ferocia delle Foibe - una delle barbarie del secolo scorso".


Poster del PCI triestino dedicato al primo maggio 1950

A continuazione trascrivo un interessante saggio scritto da Gianclaudio De Angelini, intitolato
"IL PCI E LA QUESTIONE GIULIANA"':

Sin dal giugno 1941 il PCI aveva accettato in linea di principio che le unità partigiane di orientamento comunista, operanti nel settore giuliano, venissero poste sotto il controllo delle strutture partigiane jugoslave; nel marzo del 1943 il distaccamento Garibaldi si era pertanto unito alle formazioni slovene.In quegli stessi giorni le organizzazioni partigiane italiane non comuniste operanti nella Venezia Giulia venivano invece sempre più evidenziando la loro diffidenza verso i partigiani jugoslavi ed il loro acceso nazionalismo; del resto questi ultimi non si curavano in alcun modo di celare le loro mire annessionistiche, ed anzi nel '43 il Movimento Antifascista di Liberazione Nazionale Jugoslavo proclamava a gran voce il suo buon diritto di annettersi l'Istria, Trieste con tutto il litorale adriatico comprese le città di Fiume e Zara, avendo addirittura la pretesa di richiederne l'avallo dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI).

Del resto il 9 settembre del 1944 l'esponente della resistenza jugoslava Kardelj, in una lettera a Vincenzo Bianco, autorevole membro del PCI, ribadiva che il IX Corpus aveva avuto l'ordine di occupare Trieste, Istria, Gorizia e tutta quella parte del Friuli che avesse potuto raggiungere prima dell'arrivo delle forze Alleate. Come tutta risposta Bianco il 24 settembre 1944, inviato a Trieste dalla direzione del PCI, diramava alle federazioni comuniste di Trieste e Udine la direttiva di far passare le loro unità partigiane sotto il comando del IX Corpus sloveno.

Il 19 ottobre 1944 lo stesso Togliatti (capo del PCI), dopo aver incontrato Kardelj, non solo confermava sostanzialmente le direttive di Bianco alle federazioni di Trieste ed Udine, ma le integrava con la raccomandazione di fare in modo, per quanto possibile, che la regione venisse occupata dai partigiani di Tito, piuttosto che dalle truppe anglo-americane.

In questa prospettiva il capo del P.C.I. consigliava che le strutture locali del partito collaborassero con gli slavi nell'organizzare un potere popolare nelle zone liberate ed un contropotere in quelle ancora sotto occupazione tedesca. In questa azione i comunisti italiani non avrebbero dovuto avere remore nell'opporsi a quei loro connazionali che, ispirandosi ad una concezione imperialistica e nazionalistica, alimentassero la discordia con i vicini slavi. Sulla questione di fondo, la definizione della futura frontiera Italo-Slava, Togliatti non indicava una soluzione, ma solamente il metodo attraverso cui ricercarla e cioè quello di un confronto fra'democratici' italiani e 'democratici' jugoslavi, ovverossia fra i due PC.

fronte alla ferma opposizione che queste proposte incontravano da parte dei rappresentanti degli altri partiti, i comunisti giuliani uscivano definitivamente dal C.L.N. formando un comitato di coordinamento italo-jugoslavo dichiarato esteso a tutte le forze antifasciste giuliane. Il 17 ottobre dello stesso anno, il P.C.I. giuliano emanava un proclama in cui si annunciava che in breve tempo sarebbero incominciate le operazioni dell'esercito di liberazione jugoslavo per l'espulsione dei tedeschi dall'Italia Nord-Orientale e s'invitava la popolazione ad accogliere i partigiani dei Titini non solo come liberatori, bensì "come fratelli maggiori che ci hanno indicato la via della rivolta e della vittoria contro l'occupazione nazista e dei traditori fascisti".

Sollecitava altresì tutte quelle unità che si sarebbero venute a trovare ad operare all'interno del campo operativo dei partigiani jugoslavi a porsi disciplinatamente ai loro ordini e per la necessaria unità di comando e per il fatto che quelli erano meglio inquadrati, più esperti e meglio diretti. Concludeva infine impegnando tutti i comunisti ed invitando tutti gli antifascisti a combattere come i peggiori nemici della liberazione dell'Italia tutti coloro che, con il pretesto del 'pericolo slavo' e del 'pericolo comunista', lavoravano per sabotare gli sforzi militari e politici dei seguaci di Tito, impegnati nella lotta di liberazione del loro paese e della stessa Italia, e per opporre gli italiani agli slavi, i comunisti ai non comunisti.

In questo modo si creavano le condizioni affinché l'operato degli occupanti slavi diventasse totalmente insindacabile, data la facilità di far passare ogni azione difforme alla logica annessionistica slava come imperialista e nazionalista, ponendo così gli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia in completa balia degli slavi.

Di fronte a posizioni così estreme gli esponenti democratici rimasti nel CLN di Trieste, e cioè democratici cristiani, azionisti, socialisti e liberali, stringevano un patto di unità d'azione e redigevano a loro volta un proclama emanato il 9 dicembre 1944 e prontamente diffuso dalla stampa e dalla radio italiane. In tale comunicato veniva riaffermato l'impegno delle forze politiche aderenti al comitato di difendere le frontiere ottenute dall'Italia dopo la prima guerra mondiale, combattuta contro i tradizionali nemici austriaci e tedeschi a fianco di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Si garantiva tra l'altro il rispetto dell'autonomia culturale delle minoranze croate e slovene che sarebbero rimaste incluse in quei confini, si ipotizzava inoltre la creazione a Trieste di un porto franco, alla cui amministrazione avrebbero partecipato tutti i paesi interessati.

Sul finire del '44, nella loro polemica col CLN ed in coerenza con il loro allineamento alla linea diTito, i comunisti italiani di Trieste partecipavano al costituito comitato civico congiunto sotto la guida di Rudi Ursich, accettando in pratica tutte le rivendicazioni territoriali slave. Vista la non disponibilità degli altri componenti del CLN triestino di seguirli su questa strada di completa resa alle pretese slave, i comunisti italiani formavano insieme con i titini, il 13 aprile '45, il Comitato Esecutivo Antifascista Italo Sloveno (CEIAS). Il 30 aprile a seguito dell'insurrezione italiana contro le truppe degli occupanti tedeschi, comandata dal CLN di Trieste, dopo aspri combattimenti venne liberata quasi tutta la città salvo alcuni caposaldi in cui questi ultimi, trincerati, ancora resistevano.

A questi combattimenti i comunisti, sia italiani che slavi, si guardarono bene di intervenire, salvo espropriare della paternità dell'azione il CLN, quando a tappe forzate giunse il IX Corpus partigiano e la IV armata regolare jugoslava, che nella loro azione precipitosa avevano lasciato in mani tedesche ampie ed importanti zone del loro territorio nazionale come Zagabria e Lubiana,rispettivamente capitali della Croazia e della Slovenia, pur di evitare che a liberare il capoluogo giuliano fosse il CLN od eventualmente le truppe degli alleati anglo-americani. Ambedue le cose non riuscirono agli slavi perché il pomeriggio successivo, quando le truppe alleate stavano sul punto d'entrare in Trieste, il controllo della prefettura e del municipio erano ancora saldamente in mano del CLN; purtuttavia la consegna simbolica del passaggio dei poteri, dal CLN alle truppe neozelandesi, non riuscì perché, per evitare un aperto conflitto armato con i comunisti italo-slavi, i rappresentanti del CLN furono costretti a ritirarsi. Comunque la resa delle residue truppe tedesche ancora asserragliate nella città avvenne nelle mani delle forze Alleate e non in quelle slave come volevano i titini.

Incominciava così il periodo di martirio per la città giuliana sottoposta alla feroce repressione degli occupanti slavo-comunisti a cui i neozelandesi assistettero senza intervenire. La prima azione dei "liberatori" fu di disarmare i partigiani italiani del CLN, la Guardia Civica, il Corpo dei Volontari della Libertà, qualunque forza armata cioè che potesse intralciare in qualche modo la loro volontà annessionistica. L'unica formazione politica italiana che fu lasciata libera di agire fu il PCI giuliano; tutte le bandiere italiane furono fatte ammainare, quelle che la gente esponeva sui balconi furono fatte ritirare a colpi di mitra; la stampa libera fu soppressa, le uniche pubblicazioni furono 'Il Lavoratore' e 'Primorski Dnevnik', rispettivamente espressione del PCI giuliano e degli occupanti slavi.

Nel frattempo l'OZNA, la famigerata polizia politica slava, agiva silenziosamente facendo sparire i maggiori esponenti del CLN e degli Autonomisti, mentre il CEIAS a cui aderiva il PC giuliano dava vita ad un Consiglio di Liberazione di Trieste, al quale il generale Kveder consegnava l'amministrazione della città pronunciando un discorso in cui si diceva che ben presto Trieste sarebbe entrata a far parte della repubblica federale Jugoslava con uno statuto autonomo.

Il 5 maggio 1945 una manifestazione spontanea di migliaia di Triestini che si erano radunati in corteo dietro una bandiera italiana fu sciolta a raffiche di mitra sparate ad altezza d'uomo con la conseguente uccisione di 5 persone tra cui un'anziana donna di 69 anni ed un giovane ragazzo, che nel corso della sua breve vita aveva già avuto modo di sperimentare la "liberazione" titina essendo un esule di Fiume (i loro nomi: Graziano Novelli, anni 20; Carlo Murra, anni 19; Mirano Sanzin, anni 26; Claudio Burla, anni 21; Giovanna Drassich, anni 69).

Il 6 giugno 1945 tutti i triestini ricevettero l'ordine di presentare le loro carte di identità per farvi imprimere il simbolo della loro nuova "libertà", la stella rossa. Contemporaneamente l'ufficio competente provvedeva a ritirare i documenti agli elementi da loro ritenuti sospetti ed a rilasciare alle torme di slavi, recentemente calati in città, documenti attestanti il fatto che vi risiedevano da sempre.

Dalla foiba di Basovizza si andavano intanto recuperando, tra il raccapriccio generale, le povere salme degli "epurati", piccolo segno della normalizzazione slava, e veniva acquistando triste fama la villa Segrè Sartori, in cui una famigerata squadra volante della 'Guardia del Popolo' andava perpetrando ogni sorta di torture sugli sventurati che tentavano loro di opporsi (tra cui non mancarono comunisti italiani dissidenti).

Del resto il XIII Corpo Alleato aveva informato il Comando Supremo del Mediterraneo che in base all'indagine effettuata almeno 1.480 persone erano state deportate dalla Zona A e di altre 1.500 mancava ogni notizia, il rapporto continuava affermando che tra il 1° maggio ed il 12 giugno 1945 nella sola provincia di Trieste erano state uccise 3.000 persone.

L'esponente americano Grew, in una sua relazione a Trumam, paragonava l'occupazione slava della Venezia Giulia a quella praticata dai giapponesi in Manciuria o da Hitler negli anni 1938-39. Per chiarire ulteriormente la posizione e le responsabilità politiche avute dal PCI italiano nell'evolversi della situazione dei Giuliano-Dalmati basta rifarsi alla lettera che Togliatti inviò nel'45 all'allora Presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi.

In questa missiva, consultabile nell'Archivio Centrale dello Stato a Roma, Togliatti arrivò a minacciare una guerra civile se il CLNAI avesse ordinato ai partigiani italiani di prendere sotto il proprio controllo la Venezia-Giulia, evitando in tal modo l'occupazione e l'annessione de facto alla Jugoslavia. A patire le conseguenze di questa presa di posizione furono le popolazioni dell'Istria e della Dalmazia, che in balia dei titini subirono una metodica opera di terrorismo, che indusse la maggioranza della popolazione ad abbandonare compatta le proprie case per cercare un rifugio nella disastrata Italia post-bellica, cosa che non era avvenuta nei precedenti rivolgimenti politici subiti dalla nostra regione di frontiera né con i francesi di Napoleone e neppure sotto il dominio austriaco quando, seppure governati da un regime reazionario, gli istriano-dalmati erano stati comunque lasciati liberi di rimanere se stessi, cioè italiani.

Il comportamento operato nella Venezia-Giulia dai comunisti jugoslavi, a cui il PCI si prestò passivamente e non, fu una vera e propria "pulizia etnico-culturale". Per inquadrare l'entità del genocidio e del conseguente esodo basti dire che i morti giuliano-dalmati durante la guerra, furono nettamente superiori alla media nazionale, a cui bisogna però aggiungere le uccisioni e gli infoibamenti che sono continuati ben oltre il termine della guerra, e che portarono le foibe a riempirsi di migliaia di sventurati.

Le uccisioni comunque perpetrate furono di circa 12.000 persone, stima dell' I.R.O. (International Refugèe Organisation) e, a testimonianza di un referendum popolare patito sulla propria carne in mancanza di quello che civilmente si reclamava per stabilire il destino della regione e dei suoi abitanti, oltre 300 mila persone preferirono la via dolorosa dell'esilio.

A completare il quadro non può essere taciuto il comitato di accoglienza che queste popolazionicosì ampiamente tribolate hanno ricevuto dai comunisti italiani al loro arrivo nella loro Madrepatria: insulti, fischi e sputi a Venezia e Bari quando le navi cariche di profughi attraccarono al porto; minacce di sciopero a Bologna per evitare che un treno di profughi avesse modo di rifocillarsi al posto di ristoro organizzato dalla Pontificia Opera di Assistenza; la costante azione di diffamazione operata nell'indicare al pubblico ludibrio come ricchi borghesi "fascisti" coloro che fuggivano dalle "magnifiche sorti e progressive conquiste" del comunismo di Tito.

Il 10 febbraio 1947 si firmò a Parigi il Trattato di Pace tra gli Alleati e l'Italia, accolto positivamente solo dai comunisti di Togliatti. Tale trattato di Pace, o meglio 'Diktat', sanciva la sconfitta della disastrosa politica espansionistica voluta da Mussolini con clausole onerose che vennero pagate dall'intera nazione italiana. Ma non tutti gli italiani pagarono allo stesso modo. Il maggior prezzo, a parte la cessione alla Francia di Briga e Tenda, venne subito dalle popolazioni italiane del confine orientale: quasi tutta la Venezia Giulia oltre al territorio di Zara, in Dalmazia, passarono alla Jugoslavia, mentre Trieste, "Territorio Libero", veniva amministrato da un governo militare ad opera degli Alleati anglo-americani. Il tutto venne determinato senza mettere in pratica il tanto proclamato "diritto all'autodeterminazione dei popoli", difeso a spada tratta dal Presidente americano Wilson dopo la Prima Guerra Mondiale; principio secondo il quale vennero negate all'Italia le terre dalmate che rientravano nel famoso "Patto di Londra" innescando così il mito della vittoria mutilata e la nascita di quei movimenti reducisti da cui prese linfa il Fascismo.

Lo stesso Presidente Wilson aveva proposto, allora, che la frontiera italo-jugoslava lasciasse all'Italia il versante orientale delle Alpi e quasi tutta l'Istria (la così detta "Linea Wilson") riconoscendo l'italianità della maggioranza della popolazione dell'Istria centro-occidentale.

Nel 1947 furono proposte 4 linee di frontiera dalle diverse potenze vincitrici: vennero bocciate, come eccessivamente pro jugoslavia, quella sovietica che passava per Pontebba, Cividale e la foce dell'Isonzo e quelle statunitense e inglese, come troppo benevoli verso l'Italia, che pure modificavano ampiamente ed in favore della Jugoslavia la "Linea Wilson", e venne approvata invece la punitiva proposta della Francia che, pur non accogliendo tutte le pretese di Tito, cedeva alla Jugoslavia quasi tutta l'Istria (oltre Fiume e Zara) ed istituiva il Territorio Libero di Trieste(T.L.T.) le cui Zone "A" e"B" erano amministrate dagli Alleati (la prima0 e dalla Jugoslavia (la seconda).

Solamente nel 1954 la Zona "A" (Trieste) ritornò all'Italia, mentre la Zona "B" - ancora ufficialmente territorio italiano - continuava ad essere sottoposta all'Amministrazione jugoslava. Nel 1975, con l'infausto Trattato di Osimo, l'Italia legalizzava anche l'annessione de facto della Zona "B", cioè l'estremità nord-occidentale dell'Istria, con le città di Pirano, Isola e Capodistria, popolate da sempre da cittadini di etnia prevalentemente italiana. La frontiera arrivò così alla periferia di Trieste. Anche in questa occasione il PCI approvo' quest'azione, che danneggiava una parte dell'Istria popolata da moltissimi italiani e da pochissimi slavi.

Ritornando al Trattato di Pace di Parigi, va ricordato che restarono inascoltate le richieste di Riccardo Zanella, ex-Presidente dello Stato Libero di Fiume (1920-1924) per ricostituire l'enclave italiana del Quarnero. Restò inascoltato l'appello del C.L.N. di Pola che chiedeva l'istituzione di un Referendum per stabilire con una democratica consultazione il destino di tali terre di frontiera. Restarono inascoltati i pressanti appelli delle popolazioni istriane e la delegazione inviata dagli istriani, fiumani e zaratini non venne neanche ammessa al tavolo delle trattative per dire le sue buone ragioni. Tutto fu inutile. Le potenze vincitrici sancirono solamente il fatto compiuto, ovvero l'occupazione militare jugoslava di Fiume, di Zara e di gran parte dell'Istria.

L'occupazione militare fu la base per il buon diritto jugoslavo ad annettersi tali regioni senza ascoltare la voce degli abitanti autoctoni.G. De Angelini

PS: Leggasi infine questo articolo su come furono trattati gli istriani profughi dai comunisti italiani dopo il 1945: https://it.insideover.com/storia-2/cosi-inizio-il-grande-dramma-degli-italiani.html?utm_source=ilGiornaleutm_medium=articleutm_campaign=article_redirect_ga=2.198894895.1029811582.1622899081-1012712233.1619618764


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Monday, 1 February 2021 Gli ultimi martiri del Risorgimento: Trieste 1953

Ho letto pochi giorni fa un libro intitolato "Il confine tradito" (Leone editore), dove lo scrittore Valentino Quintana dipinge la storia dei fratelli Gherdovich, Giorgio e Mattia, nella Trieste contesa tra l'Italia sconfitta nella seconda guerra mondiale e la Iugoslavia di Tito. Due personaggi sui generis. Il primo, prima di essere un fascista deluso, è un galantuomo che ama l'Italia. Il secondo, un partigiano "che imbraccia la visione del Risorgimento italiano ed europeo". La trama del libro si svolge intorno a questi due personaggi ed alla rivolta di Trieste nel 1953, quando morirono gli ultimi martiri del Risorgimento italiano.

Gente festante a Trieste nel 1954, per il ritorno della citta' all'Italia

Scrive il Quintana nel suo libro che:

'........Quando l'8 maggio del 1945 i titini entrano a Trieste, Mattia è in estasi: "Attendeva quel momento da anni: suo era il compito di raccontare ai triestini l'iniquità del Fascismo, esaltare la libertà e la lotta di liberazione e la tanto agognata resa dei tedeschi". La realtà, come è noto, è però diversa. Per quaranta giorni i titini martoriarano Trieste: "I prelievi di persona da parte degli occupanti jugoslavi non cessavano e la gente continuava a parlare insistentemente del 'Pozzo della Miniera' di Basovizza, una voragine profonda 250 metri, nella quale, se ci riferiva alle voci correnti, 1200 persone erano già state gettate".

La prima tappa degli italiani che non si arrendono a Tito è San Pietro del Carso, dove avviene la cernita dei dissidenti e il loro smistamento in Jugoslavia, per essere poi internati o definitivamente eliminati. Come ricorda Quintana, "il pozzo di Basovizza, la foiba Golobivniza di Crognale, San Servolo, il Castello di Moccò, Scadaiscina, la foiba di Casserova, le sorgenti del Risano, Sant'Antonio in Bosco, Dignano solo alcuni dei luoghi del massacro".

Il 12 giugno del 1945 sembra finalmente terminare l'incubo per Trieste. I titini abbandonano la città, portando con sé tutto quello che possono: "A suon di ordinanze, si sequestrò il patrimonio dell'Enic, si rubò dall'ospedale militare tutta l'apparecchiatura, si spogliò la Telve; un'azienda telefonica; si confisarono le macchine della Società editrice italiana de Il Piccolo, il giornale di Trieste, si depredò l'Eiar, l'ente italiano audizioni radiofoniche istituito dal regime fascista. Danni incalcolabili per la città, che subiva una spogliazione senza precedenti". La paura sembra alle spalle: "Dopo quaranta giorni di amara passione il tricolore poteva nuovamente sventolare sulla città, in quella precoce estate, al grido comune di Italia! Italia! Italia!". Ma è solo una illusione. La gente continua a sparire e i due fratelli, che si pensava fossero così diversi, si riscoprono simili. Galantuomini pronti a tutto per la propria terra, che non può non essere italiana.......'

La rivolta di Trieste (3-6 Novembre 1953)


Foto mostrando manifestanti italiani, che bruciano insegne e propaganda pro-Tito il 6 novembre 1953 a Trieste
(Vedasi anche questo video inglese "YouTube", che mostra i manifestanti italiani contro gli inglesi del Governo Militare Alleato:
https://www.youtube.com/watch?v=cBXNB39HNpw)

Con la fine della II Guerra Mondiale l'Italia perse una regione del proprio territorio nazionale: la Venezia Giulia. Nel capoluogo Trieste, e nel territorio immediatamente circostante, fu stabilito dal Trattato di pace che dovesse sorgere il "TLT", Territorio Libero di Trieste: uno stato indipendente sotto l'egida dell'ONU, che ne avrebbe nominato il governatore. Tuttavia il TLT non fu mai costituito e il territorio rimase diviso in due zone di occupazione militare: la A, governata dal Governo Militare Alleato (GMA), e la B, sotto amministrazione militare jugoslava. Per nove anni le diplomazie italiane e jugoslave lavorarono per ottenere l'intero Territorio, creando così una situazione di stallo.

Nell'estate 1953 una svolta: il governo italiano schiera le truppe al confine, Tito risponde con movimenti militari e i due eserciti si fronteggiano portando l'Europa a un passo dalla guerra. Gli Alleati provano a lavorare per una divisione del Territorio fra i due paesi, ma complicano ulteriormente la situazione.

Il 3 novembre, a Trieste, in occasione dell'anniversario del ritorno della città all'Italia nel 1918, il sindaco Gianni Bartoli espone la bandiera tricolore dal pennone del Municipio. Gli Alleati la requisiscono, causando tumulti che dureranno per diversi giorni, durante i quali moriranno 6 cittadini italiani.

Infatti il 4 novembre i manifestanti di ritorno dal sacrario di Redipuglia improvvisano una manifestazione per l'italianità di Trieste. La Polizia Civile, guidata da ufficiali inglesi ma composta da triestini, interviene duramente per sequestrare la bandiera dei manifestanti: ne seguono violenti scontri, che in pochi minuti si propagano in tutta la città.

Il giorno dopo, il 5 novembre, gli studenti proclamano uno sciopero e manifestano di fronte alla chiesa di Sant'Antonio. Al passaggio di una vettura della Polizia Civile, con a bordo un ufficiale inglese, danno vita a una sassaiola. L'ufficiale affronta i manifestanti ma viene strattonato e gettato a terra sulle scale della chiesa; interviene allora il nucleo mobile della Polizia Civile, creato proprio in previsione di queste giornate, che disperde i ragazzi che si rifugiano dentro la chiesa, dove vengono inseguiti usando un idrante nell'irruzione, e malmenati violentemente. Il vescovo Antonio Santin stabilisce per il pomeriggio la cerimonia di riconsacrazione del tempio: partecipano migliaia di cittadini, e all'arrivo delle camionette della Polizia nascono nuovi incidenti. L'ufficiale inglese apre il fuoco, e i poliziotti ne seguono l'esempio: muoiono Piero Addobbati e Antonio Zavadil, mentre decine di altri ragazzi vengono feriti. I segni dei proiettili resteranno visibili su due lati della chiesa fino alla ristrutturazione del 2012.

Il 6 novembre la città è attraversata da una folla immensa, decisa ad attaccare tutti i simboli dell'occupazione inglese: sono date alle fiamme auto e motociclette della Polizia, e viene messa a ferro e fuoco la sede del "Fronte per l'Indipendenza del Territorio Libero di Trieste". I manifestanti giungono in piazza Unità d'Italia e tentano di assaltare il palazzo della Prefettura, sede della Polizia Civile: gli agenti reagiscono sparando sulla folla, ferendo decine di persone e uccidendo Francesco Paglia, Leonardo Manzi, Saverio Montano ed Erminio Bassa.

Scrive Pigliucci (professore dell' Universita' Tor Vergata di Roma): La folla (del 6 novembre 1953) è molto più organizzata e arrabbiata di quella del giorno prima: i ragazzi scendono in corteo brandendo sassi e bastoni, indossando i guanti, divellendo i paletti dai marciapiedi e utilizzandoli come armi. Fra loro, ci sono studenti in giacca e cravatta ed operai intuta mimetica e giubbotto di pelle, uomini adulti e ragazzi, anziani e donne che sventolano bandiere, tutti uniti in una sorta di festa, in una rivolta di italianità che metterà proletari e borghesi, fascisti e antifascisti gli uni al fianco degli altri nella comune causa.

Questo episodio di rivolta triestina costringerà le diplomazie a trovare una soluzione: undici mesi dopo il Territorio viene spartito fra Italia e Jugoslavia. Nel 2004 i caduti triestini del Novembre 1953 verranno insigniti della medaglia d'oro al merito civile.

Se interessati, vedasi anche questo video YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=WJOPbUlbiA4

I sei martiri

A continuazione trascrivo brani relativi ai sei martiri, scritti da Michele Pigliucci nel suo libro "Gli incidenti per Trieste italiana del 3-6 novembre 1953":

....Nessun poliziotto riporterà ferite da arma da fuoco, a dispetto della difesa del GMA che sosterrà di aver trovato circa venti o trenta colpi d’arma da fuoco sulla facciata del palazzo della Prefettura. Qualcuno vedrà negli spari della polizia la prova che le violenze sarebbero state volute ed organizzate dagli inglesi per rinviare l’applicazione della Nota Bipartita:si sottolineerà infatti come la Polizia civile e le truppe angloamericane avessero tutti i mezzi per sedare manifestazioni senza bisogno di uccidere nessuno.

Pietro Addobbati (Zara, 1938), studente, esule dalmata

Pierino Addobbati era un ragazzo di quattordici anni. È nato il 7 febbraio 1939 e vive coi genitori Francesco e Paola in via Roma 30, a cinquecentometri da piazza Sant’Antonio. Quel giorno il suo ginnasio Dante Alighieri, dove frequenta la V B, ha fatto sciopero: lui si è attaccato la coccarda tricolore al bavero ed è andato al corteo con il gruppo dei Dalmati, di cui fanno parte anche Renzo De Vidovich ed Enrico De’Schoenfeld.

Scendere in piazza è una cosa normale per Pierino, che in famiglia è stato educato all’amor di Patria. Il fratello spiega così: «Pierino non aveva alcuna simpatia per questo o quel partito politico, lui e i suoi amici si chiedevano solo perché Trieste non poteva essereitaliana e come e quando ciò sarebbe potuto avvenire».Per la sua età Pierino è un gigante, con il suo metro e settantacinque di altezza, il suo piedetaglia 43 e il fisico prestante. È un ragazzo di forte personalità, molto esuberante, dotato digrande carisma e di spirito competitivo. A scuola va molto bene senza fare alcuno sforzo, ed è uno sportivo: ama la pallacanestro e il pattinaggio. Il temperamento testardo tradiscela sua origine dalmata: il padre Francesco è infatti di Curzola, ha fatto il liceo a Zara e l’università a Vienna dove si è laureato in medicina; assunto all’ospedale di Pola entra in conflitto con il primario, e si trova senza lavoro. Diventa allora medico condotto a Sesana, un piccolo paese del Carso triestino, dove si costruisce una famiglia da cui nascono Vincenzo e Pietro.Francesco Addobbati (padre di Pietro) era un noto antifascista, molto rispettato in città. Durante l’occupazione tedesca, il 24 ottobre 1943, i tedeschi gli avevano imposto un ultimatum: sottoscrivere il suo atto di adesione alla Wehrmacht o essere internato in un campo di concentramento. Addobbati aveva risposto: «Scelgo il campo di internamento!» impressionando i tedeschi al punto che gli avevano concesso di essere accompagnato al treno dalla moglie,che aveva salutato dicendo: «Questo è il mio dovere, questo è il retaggio di onore che io lascio ai miei figli».Era rimasto nel campo di concentramento due anni, mentre nello stesso periodo il fratello era volontario nei Battaglioni M della Repubblica Sociale Italiana.Da quando Sesana è passata sotto il controllo jugoslavo Francesco Addobbati si è trasferito ad esercitare la professione a Trieste. Quel giorno tutti gli altoparlanti della città ripetono che in ospedale c’è bisogno di medici perché non si riesce a far fronte ai feriti checontinuano ad arrivare. Francesco Addobbati risponde all’appello e si presenta nell’astanteria dell’ospedale dove si mette a disposizione: un’infermiera lo informa che oltre ai feriti c’è un ragazzo morto che non si riesce a identificare perché privo di documenti: il dottor Addobbati riconosce così il corpo senza vita del figlio.La morte di Addobbati rimane avvolta in un certo mistero. La traiettoria del proiettile,dall’alto verso il basso, e la vicinanza dell’unico proiettile alla coccarda tricolore che Pierinoportava al bavero dell’impermeabile rende plausibile l’ipotesi che il ragazzo sia stato ucciso volontariamente: qualcuno avrebbe mirato alla coccarda come bersaglio. Potrebbe essere stato confuso con qualcun altro: come abbiamo visto la famiglia Addobbati era benvoluta in città, e nessuno avrebbe avuto interesse a colpire proprio Pietro. Le ipotesi sono molteplici: alcune dicono che chi ha sparato avrebbe forse preso il ragazzo per il figlio del segretario provinciale del MSI, o per lo stesso Renzo De Vidovich che, come Segretario Generale della Giunta d’Intesa era molto in vista. Disse infatti il De Vidovich: "...Qualcuno disse che avevano sparato a me e colpito il povero Addobbati e De’Schoenfield che erano proprio vicini a me. E io mi sentivo un po’ responsabile di quelle morti. Io ero del gruppo dalmatico, e anche erano entrambi di noi: sia Addobbati sia De’Schoenfield (…).Qualcuno disse che volevano uccidere me perché avevo firmato il manifesto dello sciopero, ero stato arrestato più volte, ero un viso noto a loro, e agli studenti naturalmente… però non so se questo è vero perché nessuno mi ha mai detto: “Ho cercato di coparti, t’è andata bene!”.Cosa che avrebbero potuto dirmi, ma forse queste cose non si dicono…"

Antonio Zavadil (Trieste, 1889), portuale antifascista

Antonio Zavadil, anziano cameriere marittimo moderatamente antifascista, viene colpito da una pallottola vagante al torace, presso la galleria Rossoni in contrada del Corso: il proiettile ha percorso i trecento metri di via Dante Alighieri senza incontrare ostacoli, e questo fatto ha convinto alcuni studiosi che il colpo sarebbe stato sparato dalle finestre della Questura. Non si capisce tuttavia come mai i poliziotti avrebbero dovuto mirare addirittura sul passeggio del Corso, molto distante dal teatro degli incidenti; per chi scrive, risulta pertanto più credibile che il colpo sia stato sparato dalla truppa a terra e per una casualità non abbia incontrato ostacoli lungo il percorso fino all’impatto con Zavadil. Il referto racconta: «ferito con arma da fuoco alla regione mammaria sinistra, penetrante in cavità, giunto cadavere alle 17.10 all’Ospedale Maggiore»

Francesco Paglia (Trieste, 1929), universitario, ex bersagliere della Repubblica Sociale Italiana

Francesco Paglia, il capo dei goliardi nazionali, studente ventitreenne di ingegneria, quel giorno aveva deciso di studiare quando un amico è passato sotto casa per coinvolgerlo nella manifestazione.Nato il 5 dicembre 1929, Francesco aveva combattuto in guerra nel Battaglione Santa Lucia dei bersaglieri nella Repubblica Sociale Italiana, ed era poi stato deportato nel campo di concentramento titino di Borovnica (Borovenizza); il padre Bonaventura era stato segretario della MVSN di Trieste. Francesco ha un carattere schivo, riservato.Il poliziotto accerchiato riesce a divincolarsi e scappa abbandonando il fucile.Francesco non si fa sfuggire l’occasione: si fionda sull’arma, la punta contro la Prefettura e tenta di aprire il fuoco ma non fa a tempo, perché viene immediatamente fatto bersaglio dei colpi sparati dalle finestre dell’edificio. Un proiettile lo colpisce al torace, uccidendolo in pochi minuti.

Leonardo "Nardino" Manzi (Fiume, 1938), studente, esule fiumano

Era quasi mezzogiorno (del 6 novembre) quando, durante le cariche della polizia, una jeep rimane isolata in mezzo alla piazza e viene abbandonata dai poliziotti: Nardino Manzi è a pochi metri di distanza e corre verso la jeep forse nella speranza di trovarvi delle armi, ma il suo tentativo dura pochi secondi: per l’inesperienza rimane scoperto, dà le spalle al palazzo della Prefettura da cui i cecchini sparano per fermarlo: lo colpiscono sette proiettili.Alcune persone si espongono agli spari per correre verso di lui, lo sollevano e lo portano al riparo al Municipio. Leonardo è vivo e cosciente, e viene immediatamente trasportato all’ospedale; un suo amico, Claudio Sovich, chiama a casa Manzi: «Correte in ospedale che Nardino è stato ferito».Quando arriva la telefonata la mamma sta cucinando il piatto preferito per l’onomastico di Leonardo, convinta che il figlio sia a scuola; ricevuta la telefonata corre all’Ospedale Maggiore con la figlia Clara. Leonardo è gravissimo: un proiettile gli ha perforato il torace e la prognosi è infausta. Il ragazzo è sdraiato sul letto e non vuole che la mamma lo veda in quello stato, e le dice: «Mamma ma non devi farmi gli gnocchi oggi?», poi ripete alla sorella, tirandola a sé per il bavero del cappotto: «Clara porta via nostra mamma! Porta via la mamma!». Alla terza esortazione Clara si convince e accompagna la mamma in lacrime fuori dalla stanza; poi torna dentro e abbraccia il fratello appena in tempo per vederlo esalare l’ultimo respiro con un grido: «Mamma! Viva l’Italia!».

Saverio Montano (Bari, 1903), ex partigiano

La relazione riservata sugli incidenti inviata all’Ufficio Zone di Confine parlerà dell’agente Carli (ex Kralj) che avrebbe sparato dalla terrazza della Prefettura mirando sulle persone con l’intento di uccidere; altri agenti avrebbero colpito a morte alcune persone sulla piazza che cercavano di nascondersi.Saverio Montano, agente commerciale di cinquantadue anni, si trova in fondo alla piazza, all’angolo con largo Pitteri di fronte alla farmacia: due proiettili lo raggiungono alla gola ed al torace e lo uccidono, bagnando di sangue la bandiera tricolore che porta legata al collo (come quando era stato partigiano).Il consigliere comunale Nereo Stopper riferirà poi di aver visto con i propri occhi i poliziotti del «nucleo mobile» inginocchiarsi in posizione di mira e sparare dal porticato della Prefettura contro tre giovanissimi triestini ed altri, attendendo che comparissero dai portoni, dalle vie laterali, dalle colonne dietro le quali avevano trovato riparo.

Erminio Bassa (Trieste, 1902), portuale

Il cinquantunenne Erminio Bassa si trovava lontano dalla Prefettura, verso Capo di Piazza: quel giorno doveva recarsi al Lloyd Triestino in piazza Unità, e si era fermato all’angolo ad osservare quello che stava succedendo. Mentre si trovava di fronte al locale «Buco nel muro» ed inneggiava a Trieste italiana, fu colpito da un proiettile che gli trapassò il braccio prima di conficcarsi nel torace. Le fotografie dell’epoca – in particolare quelle effettuate da Otello Berti da via dell’Orologio – mostrano come gli spari raggiungano principalmente la seconda linea della manifestazione, e non quindi coloro che attivamente cercavano di assaltare la Prefettura: dal tetto e dalle finestre dell’edificio si esercitano proprio ad una sorta di macabro tiro a segno contro i passanti che sostano sulle Rive e a Capo di Piazza. La situazione rischia di sfuggire da ogni controllo e alcuni agenti della Polizia civile minacciano l’ammutinamento, annodandosi al collo un fazzoletto tricolore e rifiutandosi di sparare; altri rassegnano immediatamente le proprie dimissioni, altri ancora disertano.

Foto della Piazza dell'Unita' a Trieste strapiena di folla nel giorno del ritorno ufficiale all'Italia, esattamente quasi un anno dopo la rivolta del 1953 (quando nella stessa piazza vi furono uccisi alcuni degli ultimi martiri del Risorgimento italiano)


Tags: irredentismo italiano, Lingue neolatine dei Balcani, Venezia Giulia italiana
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Tuesday, 5 January 2021 Lussino italiana (1918-1947) - Seconda parte

Continuo questo mese ad esaminare i trent'anni di "Lussino italiana". Lussino visse i primi anni della seconda guerra mondiale senza alcun problema, ma nel settembre 1943 l'orrore dei massacri titini si presento' in tutta la sua crudelta' quando un gruppo di Cetnici slavi vi fu massacrato. Purtroppo era solo l'inizio di una tragedia etnica, che ha lasciato spopolata l'isola dai suoi abitanti neolatini autoctoni! Dei quasi 10000 abitanti di lingua italiana dell'isola nel 1940 (che erano oltre il 75% di tutta la popolazione) restavano solo 260 italiani nel 1950....una vergognosa pulizia etnica in appena dieci anni!

Eccovi in merito ulteriori brani della tesi di Caterina della Giustina, cominciando dalla fine degli anni trenta:

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Lussino tra storia e memorie. Dal fascismo alle guerre jugoslave (seconda parte)

Foto panoramica di Lussino nei primi decenni del Novecento

Organizzazioni sociali e scuola a Lussino, durante il periodo fascista

Come in tutta Italia, durante il periodo fascista, anche a Lussino furono introdotte organizzazioni sociali di massa per avvicinare la popolazione al Fascismo. L’Opera nazionale Balilla, ad esempio, raccoglieva i giovani, maschi, secondoprecise fasce d’età: dai sei agli otto anni si era Figli della Lupa; dagli otto ai quattordici si diveniva Balilla; dai quattordici ai diciotto, Avanguardisti e infine dai diciotto ai ventuno si entrava nei Fasci giovanili da combattimento.

Il Fascismo diede vita anche diverse organizzazioni femminili. Le ragazze potevano entrare a far parte dei gruppi giovanili delle Piccole Italiane e delle Giovani Italiane. Per le donne vi erano le Massaie rurali, la sezione Operaie e lavoranti a domicilio e i Fasci femminili.

Il Fascismo riservò un’attenzione particolare alla scuola. Nel corso degli anni Trenta, una parte sempre maggiore delle ore scolastiche fu impiegata per la celebrazione del regime e del suo capo. Furono inserite anche nuove materie d’insegnamento come la cultura militare e venne data molta importanza all’educazione fisica. In particolare, a Lussino si tentò di imporre nelle scuole una forzata italianizzazione (colla esigua minoranza slava).

A Lussino, l'offerta scolastica superiore era limitata: l’Istituto Nautico Nazario Sauro e alcune scuole professionali. Chi voleva continuare gli studi, era costretto a spostarsi in centri più grandi, come Gorizia o Roma. Risulta quindi evidente che tali soluzioni fossero percorribili soltanto da famiglie di condizione economica agiata (quasi tutte di lingua italiana).

Un altro ruolo importante nella comunità fu ricoperto dalle suore, appartenenti all'ordine delle Ancelle della Carità, le quali si occupavano prevalentemente di assistenza ospedaliera e di istruzione scolastica (Istituto femminile privato). Gestivano, inoltre, l’orfanotrofio del paese.

I mestieri dei Lussignani

Il lavoro nell’industria navale e nella navigazione in generale, era molto diffuso fra i Lussignani e vide protagoniste, a diverso titolo, molte delle famiglie di lingua italiana. Alcuni erano marinai, ma molti altri erano operai nei cantieri locali, come nel cantiere navale Piccini.

Tra le diverse botteghe che animavano la vita commerciale di Lussinpiccolo vi era quella della famiglia Cavedoni, la quale da generazioni lavorava il marmo e la pietra.

Fra gli abitanti dell’isola c’era anche chi si guadagnava da vivere coltivando la terra, allevando bestiame (prevalentemente ovini) e andando a pesca.

Lavori pubblici

Come già detto, ci furono alcuni tentativi di risollevare l’economia dell’isola (dopo il 1918), da parte dell’amministrazione italiana. Tra questi ci fu l’inaugurazione, nel 1926, della via “Vittorio Emanuele III”, più nota come “Strada Nova”; nel 1928 venne ulteriormente migliorata la carrozzabile per Lussingrande. Nel 1927 iniziarono i lavori per allargare anche la riva e la piazza di Lussinpiccolo, utilizzando il materiale di scarto risultato degli scavi per la realizzazione di via Vittorio Emanuele III.

Tra il 1925 e il 1930 fu sistemato anche il porto di San Martino e nel 1935 fu portato a termine il taglio dell’istmo di Privlaca (progettato già nel 1903), per agevolare le comunicazioni tra i due mari che circondano l’isola: il Quarnaro e il Quarnerolo.

Il progetto di un acquedotto che portasse nell’isola di Lussino l’acqua del lago di Vrana, rimasto in sospeso allo scoppio del primo conflitto mondiale, fu ripreso dall’amministrazione italiana, ma fu nuovamente interrotto a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale.

La seconda guerra mondiale a Lussino

Foto del recupero di materiale bellico nel porto di Lussinpiccolo nel 1944

Lussino fu praticamente risparmiata dalla guerra fino al settembre 1943.

La Seconda Armata, guidata da Vittorio Ambrosio conquisto' la Dalmazia costiera nella primavera del 1941. Contava otto divisioni di fanteria e (successivamente) si avvalse anche della collaborazione dei Cetnici di Mihailović, che in cambio ottennero rifornimenti di armi dagli Italiani per difendere il popolo serbo e preservare le proprie truppe contro i comunisti di tito.

«Animati da sentimenti visceralmente anti-croati e anti-comunisti […] molti gruppi cetnici serbi erano disposti a non contestare la presenza italiana in Croazia e in Bosnia e a collaborare nella repressione antipartigiana.» Il 1° marzo 1942 il nuovo comandante della Seconda Armata, Mario Roatta emanò la circolare ‘3C’ che «avrebbe dovuto uniformare l’attività repressiva su tutto il territorio (dalmato) sotto il suo controllo.»

Molti leader fascisti, compreso Mussolini, non vedevano di buon occhio la politica filo-serba adottata dalla Seconda Armata, ma, siccome la ritenevano necessaria contro i partigiani di Tito, furono almeno attenti a non concedere troppa autonomia e forza ai Cetnici, per evitare che diventassero troppo forti. Anche gli ustaša croati e i Tedeschi criticarono aspramente la collaborazione tra cetnici e fascisti, poiché avvertivano la volontà degli Italiani di ostacolare la creazione di uno Stato croato unitario croato.

L’8 settembre 1943, l’Italia, sconfitta dalle forze Alleate, dichiarò caduto il regime fascista e conclusa l’alleanza con la Germania. Lo stesso 8 settembre, il croato Pavelić, in accordo con Hitler, comunicò l’annessione della Dalmazia italiana alla Croazia e il 10 settembre ne dichiarò decaduto il re, Aimone di Savoia. Pavelić riconobbe, dopo, il neonato governo repubblicano fascista (nota anche come Repubblica di Salò) guidato da Mussolini, di cui era stata annunciata la nascita il 15 settembre 1943. Le intenzioni di Pavelić, ma anche quelle del comunista Tito erano di annettere, rispettivamente alla Croazia e alla futura Iugoslavia riunificata, anche Zara, le isole del Quarnero e l’Istria orientale. Davanti a tali prospettive la preoccupazione tra le popolazioni italiane (anche di Lussino) era molta.

Il lussignano Claudio Suttora scrisse che l’11 settembre, trecento Cetnici si rifugiarono a Lussino. Ancora Suttora riportò che, il 25 settembre, l’esercito dei partigiani di Tito sbarcò a Lussinpiccolo e che due giorni dopo iniziarono a massacrare, sulla scogliera dei bagni pubblici di Lussingrande, i Cetnici presenti sull’isola.

Il ricordo di questo brutale massacro, in cui morirono circa 160 Cetnici, collima con quello del signor Ottavio C.: ".....A un certo momento quelli (ossia i Titini) che sono arrivati dall’interno hanno fatto prigionieri un numero consistente di Cetnici, cioè quelli che erano pro re Pietro, li hanno presi e messi su un trabaccolo grande: erano genitori, madri, figli tutti insieme, messi su un trabaccolo, li hanno legati col filo di ferro e in mezzo al mare li han buttati tutti in mare. Un’altra volta, i partigiani hanno prigionieri un gruppo di Cetnici, li hanno portati da Lussinpiccolo a Lussingrande a piedi e li hanno messi con la schiena in riva al mare e col coltello li aprivano e li buttavano in acqua. Questo era quello che eravamo costretti a vedere e subire….."

Luciano Monzali scrisse che: "....Nel settembre 1943 ebbe inizio quella che possiamo definire la fase finale della tragedia storica degli Italiani di Dalmazia, che nel giro di qualche anno sarebbero stati sostanzialmente spazzati via e sradicati dalla Patria natia..."

A fine settembre del 1943, i Tedeschi costituirono la zona d’operazione del Litorale Adriatico (OZAK), comprendente le province italiane di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana. Lussino faceva parte della provincia di Pola, ma i titini vi furono sloggiati dai nazisti solo a novembre 1943.

Il 7 novembre sbarcarono nell’isola anche gli Inglesi, alleati dei partigiani di Tito, ma la loro occupazione durò l’arco di una settimana, poiché il 13 novembre, i Tedeschi occuparono Lussino e Cherso e fucilarono circa una trentina di partigiani (alcuni dei quali erano comunisti di Lussino).

Nei mesi di occupazione tedesca «L’unico mezzo di collegamento con l’Italia era il vapore “Sansego”, che collegava Zara a Trieste, sostando a Pola e Lussino, una volta la settimana».

Il 29 e il 30 novembre dello stesso anno, a Jajce, in Bosnia-Erzegovina, fu proclamata la Repubblica Federale Popolare di Jugoslavia, con a capo Tito, che rivendicò Zara, Fiume, la Dalmazia costiera e tutta la Venezia Giulia.

Dalla lettura dei documenti conservati nell’archivio della rivista "il Foglio di Lussino", si evince che nell’isola di Lussino tra il 1944 e il 1945 ci furono dei bombardamenti da parte degli Alleati. Il 26 maggio 1944, fu bombardato il naviglio tedesco al largo della baia di Cigale e il giorno successivo fu colpito e affondato il piroscafo “Sansego”, l’unica imbarcazione che collegava Lussino a Trieste e che riforniva l’isola di viveri.

Il 28 maggio 1944, due case e la scuola dell’isola di Sansego furono colpite da una bomba. Nei giorni successivi continuarono i bombardamenti e i cannoneggiamenti contro diverse imbarcazioni tedesche. Nella notte del 1° giugno, intorno alle ore 23, un aereo inglese gettò sul molo di Lussinpiccolo tre razzi e cinque bombe, che provocarono tre morti e tre feriti. Il 5 giugno, una battaglia navale, durata 22 minuti, tra tedeschi e cacciatorpedinieri inglesi colpì diverse case e provocò un morto. Tutta la mattina del 6 giugno, i dintorni di Lussinpiccolo furono bombardati. Solo una bomba, inesplosa, cadde in paese.

Il 3 dicembre, gli Inglesi bombardarono la Centrale elettrica di San Martino, a Lussinpiccolo. Il 4 dicembre 1944 l’isola subì un massiccio bombardamento aero-navale che sembrò preludere a uno sbarco di forze, ma non accadde; il Comandante Giles, ritenendo fossero state distrutte ''le installazioni terrestri tedesche, affondati i battelli esplosivi ed altre unità, abbattuto il morale nemico e, in definitiva, stroncata l’efficienza della marina Tedesca locale, diede ordine di rientro a tutte le Unità Britanniche".

Per tutto il 1944, quindi, l’isola di Lussino venne bombardata quasi ogni giorno e furono danneggiate numerose imbarcazioni, case, cantieri navali, zone di campagna, moli, strade, ponti, porti. Per i primi mesi del 1945, continuarono comunque le azioni di disturbo navali e aeree degli Alleati contro i quattrocento soldati tedeschi che occupavano Cherso e Lussino.

Il 20 aprile 1945 i partigiani giunsero nelle isole di Lussino e di Cherso, dove, nonostante la forte propaganda con cui i comunisti si erigevano a liberatori dall’invasore italiano, parte della popolazione decise di trasferirsi in Italia o fuggire altrove; molti furono catturati o uccisi.

Quando arrivò Tito, nell’aprile 1945, la scuola italiana di Lussino cominciò la sua graduale dismissione e molti alunni decisero di passare a quella croata. A subire una radicale trasformazione fu soprattutto la struttura del sistema scolastico. Le classi italiane furono progressivamente sostituite con quelle croate. La nuova riforma scolastica prevedeva un totale di otto anni di frequenza, suddivisi in due periodi da quattro. Gli scolari dovevano iscriversi all’età di sette anni, anziché sei.

La violenza delle truppe partigiane comuniste fu cruenta. L’obiettivo era la «purificazione slava» della Dalmazia e di Zara; ogni traccia del passato italiano doveva sparire, compresa la toponomastica. Le persone sparivano nel nulla: fucilate, gettate in mare o nelle foibe.

Si stimano 250.000 morti tra il 1944 e il 1946 e dodicimila dalmati italiani buttati nelle gole delle rocce carsiche, sia vivi, sia morti, oppure annegati.

Molti furono i processi sommari con cui molti Italiani (di Lussino e dell'Istria e Dalmazia) vennero accusati di essere “nemici del popolo” e di collaborazionismo con il fascismo, ma anche di essere un prodotto della società capitalista, borghese, liberale, antipopolare e filooccidentale.

Molti Italo-dalmati scelsero la via dell’esodo, iniziato già dal 1943 e proseguito, a fasi alterne, fino a metà degli anni Cinquanta. Furono circa 350 mila gli esodati di nazionalità italiana (tra il 1943 ed il 1953); nella maggior parte delle città istriane e dalmate la popolazione si dimezzò.

Il 10 febbraio 1947 fu firmato a Parigi il testo definitivo del trattato di pace. Lussino diventava completamente slava per la prima volta nella sua Storia millenaria.

Caterina della Giustina

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Foto di alcuni dei Maro' della X Mas che difesero Lussino dai Titini nell'aprile 1945:
https://lu1960.blogspot.com/2021/01/blog...

Fossa comune a Ossero oltre il muro nord (Particella catastale n° 1013 della Partita tavolare n° 279 del Comune catastale di Ossero) di 21 marò della X Mas e 7 militi della GNR uccisi dalle truppe jugoslave. Scritta della lapide: IN QUESTO LUOGO, NELLE PRIME ORE DEL 22 APRILE 1945,/ VENNERO STRONCATE VENTOTTO GIOVANI VITE ITALIANE,/ VITTIME DELLA BARBARIE DELLA GUERRA,/ POSSANO ORA RIPOSARE IN PACE/ ALLA LORO MEMORIA/ LE COMUNITA’ DEI LUSSINI, DI NERESINE, DI OSSERO/ IN ITALIA E NEL MONDO/LUGLIO 2008

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Concludo questo mio saggio del gennaio 2021 riscrivendo alcuni brani che ho fatto un paio di anni fa sulla fine di "Lussino italiana":

Il grande esodo (da Lussino) dopo la seconda guerra mondiale

Lo scoppio della seconda guerra mondiale trovo' l'isola nel suo massimo sviluppo: con l’apporto dell’armamento navale e la conseguente espansione dei commerci, Lussino poteva ormai considerarsi un'isola ricca.

Ma la guerra ben presto distrusse tutto quanto costruito in tanti anni di lavoro, anzitutto la flotta. Dopo l’armistizio dell’Italia dell'8 settembre 1943, i “croati” dell'isola cominciarono ad organizzarsi, nella prospettiva di assumere posizioni di potere dopo l’occupazione delle isole del Carnaro da parte delle milizie jugoslave, allacciando contatti con i partigiani comunisti di Tito.

L’occupazione avvenne nella primavera del 1945: i Titini sbarcarono com mezzi anfibi inglesi nell'isola la mattina del 20 aprile 1945 ed investirono la ex caserma dei carabinieri a Neresine dove si erano asserragliati circa 20 marò della "X-MAS" comandati dal Tenente Fantechi, armati solo di armi leggere. Questi combatterono per molte ore contro forze soverchianti e si arresero solo dopo aver terminato le munizioni, uccidendo e ferendo alcuni miliziani comunisti (nello scontro il sottocapo Sartori di Genova per non farsi prendere prigioniero si suicidò con l’ultimo colpo del suo mitra). Il giorno 21 aprile 1945, portati a Ossero, dietro al muro del cimitero, i militari italiani furono torturati e costretti a scavare due grosse fosse: vennero quindi massacrati -contro tutte le leggi di guerra in caso di prigionieri arresi- e buttati dentro. La loro fu l'ultima ed estrema difesa dell'italianita' di Lussino.

Nella primavera del 1945 i “croati” di Lussino aderirono entusiasticamente al nuovo regime, senza entrare nel merito ideologico di quanto veniva imposto, d’altra parte qualunque ideologia sarebbe stata bene accolta, purché croata, analogamente a quanto era avvenuto anni prima agli “italiani” dell'isola per l’ideologia fascista. La prima azione dei “croati” fu la compilazione e consegna alla polizia politica di una nuova lista di proscrizione, contenente praticamente i nomi di tutti gli “italiani” di Lussino. Successivamente l’elenco fu rivisto dietro caldo suggerimento degli anziani più saggi, consapevoli di mettere così a repentaglio la vita anche di parenti stretti. Il risultato immediato di tutto ciò fu l'assegnazione del titolo di "nemici del popolo" alle persone più in vista del partito italiano, con il loro l’imprigionamento e la confisca dei beni, e la mandata nelle foibe istriane di alcuni tra questi. I capi del partito croato si affrettarono ad iscriversi al partito comunista, né del resto avrebbero potuto ambire a posizioni di potere senza questa adesione. Tra le direttive che il nuovo regime chiedeva di mettere in pratica, c’erano quelle contenute nel famigerato “Piano Cubrilovic” sulla pulizia etnica, elaborato dal ministro di Tito di questo nome. La situazione fu aggravata dal fatto che purtroppo i capi “croati” di Lussino, non avevano né esperienza, né un bagaglio culturale sufficiente per entrare nel merito di quello che era loro comandato di fare (nessuno aveva un titolo di studio superiore alla quinta elementare).

Il massiccio esodo di italiani da Lussino fu la conseguenza di questa situazione. Tra il 1946 ed il 1956 la maggior parte degli “italiani” se ne andò per sempre dal paese: una prima parte, fino al 1951, scappando clandestinamente, chi con piccole barche attraverso l’Adriatico, chi altrettanto avventurosamente attraverso le campagne istriane; un’altra parte negli anni successivi con regolare permesso di espatrio ottenuto dopo insistite e reiterate domande di opzione per la cittadinanza italiana. Anche molti “croati”di Lussino, quando compresero che il nuovo regime aveva abolito la libera iniziativa, la religione e la proprietà privata, non potendo più optare perché già dichiaratisi apertamente croati, decisero di scappare comunque in Italia, per poi emigrare eventualmente in America, Australia, Canada o Sudafrica, (alcuni di ques’ultimi rimasero addirittura in Italia, acquisendo successivamente la cittadinanza italiana!).


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