CyberTeologia | di Antonio Spadaro S.I., direttore de La Civiltà Cattolica

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CyberTeologia di Antonio Spadaro S.I., direttore de La Civiltà Cattolica «C’era una specie di luce in quel sorriso», ha detto chi ha ucciso Padre Pino Puglisi. Non sono originale nel dire che questa frase colpisce tutti. Veniva ucciso 26 anni fa, il 15 settembre, giorno del suo compleanno. Ha colpito anche me, ma mi ha anche interrogato. Che cos’era quella luce percepita anche da chi quel sorriso ha spento prima ancora di accorgersi che quel sorriso lo stava guardando? Che cos’era? Ha scritto mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo: «L’eroe della legalità, il martire della giustizia, con la sua morte apre paradossalmente un tempo nuovo, il tempo del dopo, per cui tanto il carnefice, l’assassino e i suoi mandanti, quanto i familiari e i colleghi devono scegliere come vivere un legame reso perenne dal sacrificio. La morte della vittima innocente diventa lo spartiacque del tempo di chi va oltre ma resta ad essa legato». «Il tempo che rimane — prosegue — diventa conversione e pentimento, rabbia e dolore, perdono ed eredità, resistenza e riscatto…. La vittima innocente cambia il tempo di chi continua dopo di lei e lo trasforma in spazio di libertà e di rinascita» (le citazioni sono tratte dal suo volume Siate figli liberi! Alla maniera di Pino Puglisi, San Paolo, 2018) Ecco le mie domande: Che cos’era quella luce percepita anche da chi quel sorriso ha spento prima ancora di accorgersi che quel sorriso lo stava guardando? Che cos’era? Che cosa ha inaugurato «il tempo del dopo»? Quel sorriso era due cose: la consolazione di Dio. Quando si affaccia la prova Dio non ci lascia soli. Don Pino aveva vissuto il suo calvario proiettando nel futuro il suo possibile sacrificio. Ma Dio non fa mancare nella tribolazione l’olio della sua consolazione, della sua grazia. Quel sorriso era la pace della presenza di Dio nel suo cuore. Chi lo ha ucciso ha visto Dio, permettetemi di dirlo così. Ha visto che Dio lo amava tramite la sua vittima. Questa è una cosa sconvolgente. era il sorriso del pastore che, percependo in un lampo, il pericolo non fugge, ma accoglie. Ed ecco il pastore: colui che vive della consolazione di Dio; colui che accoglie le pecore, anche quelle nere. In un momento nel quale l’odio sembra vincere e la paura sembra braccare i cuori, lo sguardo di don Pino ci aiuta a vivere. Aiuta a vivere noi come popolo di Dio ma anche come cittadini. Due mesi prima della morte, in un’omelia, padre Pino denunciava pubblicamente le minacce che riceveva: «Oggi mi rivolgo ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci! Vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono a ostacolare chi cerca di educare i vostri figli al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile». E ancora: «Non è da Cosa nostra che potete aspettarvi un futuro migliore per questo quartiere. Il mafioso non potrà mai darvi una scuola media o un asilo nido dove lasciare i bambini quando andate al lavoro. Perché non volete che i vostri bimbi vengano a me? Ricordate: chi usa la violenza non è un uomo. Lo so che mi stanno ascoltando. Noi chiediamo a chi ci ostacola, di riappropriarsi della umanità ed io sono disponibile ad accompagnarli in questo cammino». E concludeva: «noi andiamo avanti. Perché, come dice San Paolo: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31)». In questa conclusione si vede la saldatura tra il cittadino e il santo. È chiarissimo. Questa lezione dobbiamo recuperare a tutti i costi. Abbiamo bisogno di tornare a capire che cosa significhi essere cristiano cittadino. Ha scritto mons. Lorefice: «È il Vangelo che ci fa essere porta, casa, ospedale, campo, oratorio per tutti; e a tutti dobbiamo indicare la strada buona». Padre Pino non si sostituiva all’assistente sociale né faceva ciò che avrebbe dovuto realizzare il Comune. Semplicemente sollecitava dalle autorità i servizi e le strutture a cui i cittadini avevano diritto. Di qui le prime legittime richieste: la fognatura al quartiere; poi l’apertura di una scuola media nel quartiere, un centro sociale, un distretto sociosanitario di base, un ritrovo per giovani e anziani. Inoltre le richieste erano fatte non a titolo personale, ma insieme alla gente del quartiere. Questo comportamento era una rivoluzione, poiché insegnava ai cittadini a rivendicare liberamente i propri diritti. La trasformazione da abitante a cittadino: questa è, a mio parere, una delle eredità di padre Pino, consapevole della costruzione del nostro destino, consapevole del fatto che questo destino era anche nelle sue mani. La sua era una forma dinamica e vitale di partecipazione. Se dal Vangelo non si possono dedurre ricette politico-sociali, è chiaro però che il Vangelo giudica queste ricette. Com’è possibile che l’egoismo oggi sembra plasmare l’animo di molti nostri concittadini? Com’è possibile che i buoni cristiani dicano di riconoscere Cristo nel pane eucaristico e non riescano a farlo nel fratello in carne ed ossa? È un rischio di idolatria ammantata da devozione… Invece oggi sperimentiamo la paura e la povertà. Queste «se non ascoltate, se non interpretate e raccolte, creano diffidenza, isolamento, disillusione, frattura». Il punto è che «le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi ci interrogano» (Papa Francesco, Gaudete et Exultate 44). Non possiamo più dare per scontato il cattolicesimo del nostro popolo. E il “nemico” non è più solamente la secolarizzazione, come abbiamo spesso ripetuto, ma è la paura, l’ostilità, la frattura dei legami sociali e la perdita del senso di solidarietà. Che fare? Questo è un momento prezioso, in realtà. È un momento di discernimento, che deve avviarsi, a mio avviso, sulla base di alcune riflessioni. Questo dovrebbe essere il compito della politica, della scuola, delle parrocchie: rompere l’isolamento, ascoltare il grido, raccontare il dolore, la fatica di vivere, e darle senso. Ha scritto mons. Lorefice: «Oggi a questo compito spesso veniamo meno: viene meno la politica, che usa il disagio e non se ne fa carico; viene meno la Chiesa, quando riduce la fede ad una devozione individuale, che non investe tutta la vita e non si fa fonte di autentica comunità». E poi parla di una illusione: «Un’illusione pericolosa si sta diffondendo: che la chiusura, lo stare serrati, la contrapposizione all’altro siano una soluzione, siano la soluzione. Ma una civiltà che si fondi sul “mors tua, vita mea”, una civiltà in cui sia normale che qualcuno viva perché un altro muore, è una civiltà che si avvia alla fine». «È impossibile immaginare un futuro per la società senza un forte contributo di energie morali». L’energia morale del cristianesimo è il non considerare mai l’altro come nemico. Scrivevo di un coinvolgimento popolare… Francesco dice che siamo «circondati da una moltitudine di testimoni», che «ci spronano a non fermarci lungo la strada, ci stimolano a continuare a camminare verso la meta» (Gaudete et Exultate, 3). Risuonano qui le parole del Pontefice che avevamo letto in Evangelii gaudium, lì dove aveva scritto di una «“mistica” del vivere insieme», di un «mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (Evangelii gaudium, 87). In questo senso anche la pietà popolare ci aiuta. Ci siamo dimenticati della pietà popolare: le confraternite, le feste patronali, i legami di popolo e di quartiere con l’Ecce homo e con l’Addolorata… Scriveva Papa Francesco nel 2008: «La pietà popolare, in quanto manifestazione visibile e sensibile della religiosità popolare, è un modello dell’incarnazione della fede nelle realtà culturali, che le impregna e al tempo stesso se ne arricchisce; vale a dire, è un modello di inculturazione della fede. È sensibile, emozionale; non è né astratta né razionale. Si esprime secondo una svariata tipologia di pratiche devozionali in cui per mezzo di simboli si sperimentano valori religiosi e specificamente cristiani che si legano a diversi universi culturali trasformandosi in un mezzo di autoevangelizzazione. Possiamo comprendere bene la religiosità popolare soltanto se riconosciamo la cultura come un tutto in sé correlato. L’esperienza della fede propria della religiosità popolare scaturisce dalla stessa esperienza reale dell’uomo e si lega all’espressione di simboli, storie, miti, credenze, sogni. «Più che la parola e l’analisi, privilegia il simbolo, l’azione, il rito, il mito, il movimento, il bacio, il canto, la musica, i silenzi eloquenti, i balli, le candele e i fiori, eccetera». Ecco tutte queste sono da intendere come occasioni favorevoli di rapporto tra cultura e fede, dove attuare l’opera di resistenza alla mafia e di liberazione delle nuove generazioni. Il problema è che abbiamo una mentalità che, deturpando la sana natura religiosa dell’intercessione e della mediazione ardisce impadronirsene e spogliarla della sua carica di umanità, per ridurla a segno di potere. Oggi c’è dunque bisogno di don Pino e della sua santità. Santi, non «santini». La santità è vedere la storia da parte di Dio, con i suoi occhi, pur rimanendo assolutamente con i piedi ancorati per terra. Si tratta di tornare al Vangelo sine glossa. Di tornare all’abc, dato forse troppo per scontato. È ora di tornare al contatto diretto con la gente, a convertire cuori e menti. Don Pino si è fatto santo per strada. Tante volte Papa Francesco ha detto che preferisce una Chiesa che magari inciampa e si ferisce, ma che è per strada piuttosto che una Chiesa ben preservata ma inutile e statica. Anche in questo senso don Pino è il volto di una Chiesa «in uscita». Non «in gita», «in vacanza», ma in uscita. Questa uscita lo ha portato ad amare i nemici. E p. Pino li invitava a venire in chiesa, a dialogare, a conoscersi, a dire le loro ragioni, e non soltanto a uccidere… Egli non voleva tanto convertire i mafiosi, quanto invitare tutti a solidarizzare, ad aiutarsi, a cercare il bene del quartiere. La morte di p. Pino è stata insieme un seme di resurrezione per il quartiere Brancaccio, per Palermo e l’intera Sicilia, per il nostro Paese e la Chiesa tutta. La resurrezione ha un nome preciso che è quello che il Papa ha dato a pizza Politeama il 15 settembre 2018: «fare andare avanti la speranza» sapendo che «la speranza sorgerà a Palermo, in Sicilia, in Italia, nella Chiesa a partire da voi». Ci vuole un cuore giovane e lottatore per «non cedere alla logica dell’irredimibile». «No al fatalismo, no al pessimismo», ha chiesto il Papa. E ha aggiunto: «voi avete nelle mani la capacità di fare la speranza, di fare andare avanti la speranza». Oggi la Chiesa italiana è chiamata a svolgere un ruolo profetico. Non un ruolo egemonico, ma profetico. La Chiesa o è profetica o non è. Ed è chiamata a ricucire le coscienze con il Vangelo. A volte ci siamo talmente abituati a parlare di “dottrina cristiana” che ci di aver perso il legame tra la dottrina e il Vangelo. A volte persino non riconosciamo più il Vangelo e le sue parole e diamo credito a profeti di sventura che istillano nei nostri cuori la paura. Oggi, proprio oggi, abbiamo bisogno di profeti come don Pino che condensa il Vangelo nel sorriso davanti al suo assassino. In altre parole, per dirla con mons. Lorefice, «Abbiamo bisogno di uomini e donne che fanno quel che dicono… e che dicano no al gattopardismo dilagante». Dobbiamo rifiutarci di seguire ciò che leggiamo nel Gattopardo: «Viviamo in una realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la spinta del mare». Padre Pino è parte di quella speranza che supera ogni rassegnazione. Noi siamo chiamati a essere «alla maniera di» padre Pino. Essere liberi e forti significa non adattarsi come le alghe al flusso delle onde. Significa stare dritti. E in piedi. Anzi: camminare diritti. 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Antonio Spadaro (Segretario della Commissione per l’informazione del Sinodo). Dal “Documento preparatorio” del gennaio 2017 alla “Lettera ai giovani” del 28 ottobre 2018, una raccolta unica per completezza di TUTTI i documenti relativi alla preparazione e allo svolgimento del Sinodo 2018, compresi i vari interventidi papa Francesco che hanno accompagnato un processo di riflessione decisivoper il presente e il futuro della Chiesa. Il testo è introdotto da un saggio di p. Antonio Spadaro.«Questo è stato un Sinodo sulla Chiesa, sulla sua missione, sul suo stile di accompagnamento e discernimento, in diretto collegamento con l’insegnamento del Concilio Vaticano II. I giovani hanno risvegliato la sinodalità della Chiesa, una “sinodalità per la missione”, come afferma il Documento finale. Hanno aiutato la Chiesa a riscoprirla. Non potevano che essere loro a farlo. «Impegniamoci nel cercare di “frequentare il futuro”, e di far uscire da questo Sinodo non solo un documento – che generalmente viene letto da pochi e criticato da molti –, ma soprattutto propositi pastorali concreti, in grado di realizzare il compito del Sinodo stesso, ossia quello di far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo». Papa Francesco Condividi questo:Fai clic qui per inviare l'articolo via mail ad un amico (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per stampare (Si apre in una nuova finestra)Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Pocket (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra) As a child, I believed that two elderly widowers who lived in houses close to mine were ogres. One of them was a “good ogre” and the other one was an “evil ogre”. I was free to project all my fears and childish boogeymen on the bad ogre. The other one instead was the captain of my securities and order in my little world. Fear of the evil ogre has today become a strategy for success and consensus.The citizen who is afraid is easy prey of whoever presents himself as the captain of order. Not the “strength of order” but the order of strength, proposed as the solution to all problems. They raise the tones of conflict, exaggerate disorder, agitate the spirits of the people with projections of disturbing scenarios…and this is enough to create chaos, that then requires a “good ogre” to tame it. It is a bit like the anecdote of the antivirus companies that create the virus to sell their solutions.Political reflection, then, will be irrelevant if it does not come into contact with the fears of our contemporaries who are attracted to the product of the populist culture. Who will be able to make it clear that security is the exact opposite of obsession with security? Who will manage to open the eyes of those who really are deluding themselves that only by conducting asylum seekers into the black hole of the underground will our streets be truly secure? What is the risk of believing in the boogeyman of the bad ogre?The rage in finding objects (and people) on which to project instincts, impulses and resentments is less than that meaning of citizenship that is made up always and everywhere of ideals, values and traditions that characterize our common humanity. We are called to recognize ourselves as a community. In fact, true security is realized, effectively, by preserving and guaranteeing the positive values of living together. Contempt for those who have been forced into exile—the Pope wrote as well in his Message for the World Day of Peace—is one of those vices of politics that “are the shame of public life and put social peace in danger”. It will not be a “good ogre” to protect us from evil. The need to feel ourselves and recognize ourselves as a national community has nothing to do with the sense of an identity based on a presumed ethnic cohesion. This sense of solidarity and living together is the spiritual and cultural basis that preserves our feeling of humanity. The appeal that is resounding is then also ethical, as well as political, but is also an appeal to the imagination. Because—we must finally have it clearly in mind—the good ogre and the bad ogre don’t exist. 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Instilling the fear of chaos has become the strategy of successful politics: the tones of conflict are raised, the disorder is exaggerated, the spirits of the people are agitated with the projection of disturbing scenarios. This rhetoric evokes powerful forces that may not yet have emerged from the depth of society and public opinion. Political reflection will be irrelevant if it does not enter into contact with the fears of our contemporaries who are attracted by the fundamentalist culture. Francis asked the Korean religious leaders to use “words that differ from the narrative of fear” and to carry out “gestures that oppose the rhetoric of hate”. And recently he also stated: “It takes leaders with a new mentality. Those who do not know how to dialogue and confront each other are not leaders of peace: [ ] we need humility, not arrogance” Order.Relationships between Europe, the United States, Russia, and China are at a boil…in the search for a new world order that currently seems only a great disorder. More than ever, the disorder also claims a solid international positioning in Italy and an active foreign policy, especially in the Mediterranean, a meeting point for Europe, Africa, and Asia. Perhaps we need to call for a “new Mediterranean order”. Migrations.The migratory flows are a priority of the European Union in the next years because the migrations of today risk being the crowbar to tear Europe apart. The consequences of the shuffling of traditional identities and the disorientation it causes escape no one. We need to face this with discernment. We must never betray the basic values of humanity but put them into practice taking into account the situation in which we work. In concrete terms: it is necessary to work at integration. People.With the populism that we experience today, the strength of a democracy depends on the existence of a relatively homogenous people with a precise and recognizable identity based on ethnic cohesion. But beware, because when the ethnic community puts itself above the person, according to Jacques Maritain, there is no longer any bulwark to political totalitarianism. Anti-liberal traditions constitute ideological bridges for the current alliances between Christianity and aggressive forms of populism. The risk for the Church today is very high: to belong without believing. And this would transform religion into ideology: it would be the death of faith. But we cannot reduce the question of the people to “populism”. The question of the people is a very serious matter. Cardinal Bergoglio wrote in 2010: “A project of a few and for the few, of an enlightened minority or witnesses, who appropriate to themselves a collective sense, won’t work. It is an agreement on living together. It is the express will of wanting to be a people-nation in the here and now”. These words were written by the then primate of Argentina after the election of March 4, 2010, sound as the most urgent warning even for today. It is no longer enough to form the gardens of the elites and discuss the warmth of the fireplaces of the Illuminati. It is no longer enough to welcome the beautiful souls We make reasonable and enlightened speeches, but people are elsewhere. And the great risk is that of imagining the “people” in the form of an “anonymous mass”. The truth is that many people have to do with the populist parties or the fundamentalist sects because they feel left behind. This is why the central question today is that of democracy. Democracy.The contradictory expression of democracies that can die at the hands of democratically elected leaders emerges also in Europe. The gap between the global character of the economy, of communication and, even more so, of finance and the merely local dimension of democracy, which risks becoming almost exclusively administrative management, seems by now unsustainable. Trust in democratic-liberal systems has deteriorated. There even sympathy for a certain democratic improvisation that gives at least the sense of belonging. Is the parliamentary representative democracy destined then to fade away? Absolutely not, but the question of an “immediate democracy”, where we imagine internet can be a place of action and means, seems to have put the parliamentary representative democracy in trouble. There is a problem here, however also a challenge to welcome. We can’t pretend that the internet doesn t exist and we must acknowledge that consensus is also formed in the digital environment. Uneasiness is expressed above all there. How do we make internet come alive as a form of democratic participation without falling into demagogic shortcuts? Participation. The Pope writes, again from the text of 2010, that we need “to recover the effectiveness of being citizens”. We need to transform ourselves “from inhabitants to citizens”. This is, basically, the true problem for Europe: it has European inhabitantswho still don’t feel like European citizens. The “gap between the people and our current forms of democracy” was one of the strong themes of Pope Francis’ discourse at the Third World Meeting of Popular Movements of 2016. The Pope defined them as “a different, dynamic and vital form of social participation in public life” which is not the form of the “political party” and is capable of expressing “attachment to the territory, daily reality, neighborhood, locale, to the organization of community work”. Without participation, democracy atrophies, becomes a formality, because it leaves people out of the construction of their destiny. Work.Let s think about our young people. The NEET(not in education, employment or training) are about 20% of Italian youth. Two-thirds of today s students will do, as adults, jobs that currently do not even exist. Today we are struck with a new uneasiness: technological unemployment caused by the fact that we discover new ways to economize on work at a higher pace than that by which we discover new ways to employ labor. There seems to be an anthropological difference by now between the man of Davos and the forgotten man, between an élite of creative innovators and a mass of mere implementors. We need those “three T’s” that Francis talks about not as a slogan: Tierra Techo Trabajo(Land, Roof, Work). Land, home and work are the fundamental things that give dignity to human life, make family possible, and allow integral human development. To react, then, we need, before all else, to reconnect with civil society, with the “classes of the people”, rebuilding natural relationships with the people. This is the word: reconnect. In short, we need to go back to being “with the people”. Antonio Spadaro SJ Original text in Italian published (full text) here inLa Civiltà Cattolica: Tornare a essere popolari Condividi questo:Fai clic qui per inviare l'articolo via mail ad un amico (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per stampare (Si apre in una nuova finestra)Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Pocket (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra) Two years ago, I showed up at Casa Santa Marta with more than 30 children’s drawings from the whole world.  They were just part of over 250 collected within a project of the Jesuit publishing house Loyola Press. The drawings were accompanied by questions for the Pope: sharp and penetrating, very beautiful and difficult.  At times risky: “what did God do before the world was made?”; “If God loves us so much, why didn’t he defeat the devil?”; “How can you settle conflicts in the world?”;”Why are there not as many miracles anymore?” Children’s questions are always the hardest ones, more so than those of journalists, Francis confessed various times. Children don’t have mental filters or barriers: they say what they think.  Their emotional sensitivity and capacity for abstraction are combined with non-diplomatic immediacy. This is why confrontation with them is as merciless as it is profound.  The questions of the “little ones” are often those that we “big people” no longer are able to ask and, above all, to ask ourselves.  The Pope answered all of them, and so I was able to gather both the drawings and the answers into the book Dear Pope Francis, that has gone all the way around the world in so many languages.  Since then the Pope continues to receive hundreds of drawings and questions from all continents.  When Francis travels, he receives the drawings directly from the hands of children.  Sometimes they are sick children from the various hospitals, at times enthusiastic children, sometimes migrant children, like at Lesbos. They depict the world and they offer it to the Pope.  They draw what they see; not the good or the bad, the light or the shadow; they draw people and things.  They also draw the Pope, thus saying, without words, who he is for them.  A drawing that struck me depicted Pope Francis as a new Atlas who carries the world on his head. And the world in that drawing was full of windows, green ones on houses, all open.  But also the drawing of a migrant child who sees the sun crying while a mother drowns with a baby in her arms. Francis admires these drawings, “reads” inside them because the children “say what they see, they are not two-faced people, they have yet to learn that science of duplicity that we adults have unfortunately learned”. “Where will you put these drawings that you like so much?” I asked the Holy Father.  He looked me in the eyes and asked me to take care of them, keeping them at La Civiltà Cattolica, and coming up with something . And I had the impression he was granting me a priceless treasure: the world as seen by kids.  From here came the idea to do something beautiful, so many beautiful things, because this gift of the children to the Pope became a gift for other children.  In Mariella Enoc, president of Bambino Gesù Hospital, I found the right harmony to give a concrete face to this idea. The world of children that we admire in their drawings for the Pope is an emotional world, that is not split up with scalpels into feeling and reason. And so here the Pope draws a lesson for all of us: “Many times our smile becomes a cardboard smile, even an artificial smile like that of a clown.  Children smile spontaneously and they cry spontaneously.  It always depends on the heart, and often our heart blocks up and loses this capacity to smile, to cry. And so children can teach us to smile and to cry once more”. Perhaps this is the most challenging message we receive when we take these precious drawings in our hands. Antonio Spadaro S.J. Condividi questo:Fai clic qui per inviare l'articolo via mail ad un amico (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per stampare (Si apre in una nuova finestra)Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Pocket (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra) Il viaggio di Papa Francesco in Myanmar e Bangladesh è il primo che parte in maniera esplicita dal nuovo ruolo che la Cina vuole svolgere — e sta svolgendo già — nel contesto internazionale. Un dato di fatto che il Papa stesso ha riassunto nella conferenza stampa rientrando a Roma con queste precise parole: «Pechino ha una grande influenza sulla regione, perché è naturale: il Myanmar non so quanti chilometri di frontiera ha lì; anche nelle Messe c’erano cinesi che sono venuti… Credo che in questi Paesi che circondano la Cina, anche il Laos, la Cambogia, hanno bisogno di buoni rapporti, sono vicini. E questo io lo trovo saggio, politicamente costruttivo se si può andare avanti. Però, è vero che la Cina oggi è una potenza mondiale: se la vediamo da questo lato, può cambiare il panorama»[1]. E il fatto che in questo viaggio abbia girato attorno alla Cina non è legato solamente al fatto che il Myanmar confina con quel grande Paese per 2.200 km. Come il Papa ha notato, c’era un gruppo di fedeli cinesi con la bandiera della Repubblica popolare ad attenderlo alla Cattedrale di Yangon dopo l’incontro con i vescovi. Non solo: il 27 novembre Global Times — un tabloid prodotto dal quotidiano ufficiale del Partito Comunista Cinese, il Quotidiano del Popolo — pubblica on line nella sezione «Diplomazia» un post fotografico di Francesco che abbraccia una ragazza vestita in abiti tradizionali dal semplice titolo di «Grande abbraccio» (Warm hug)[2]. E lo stesso quotidiano il 29 novembre ha dedicato per la prima volta un articolo ad un viaggio papale — con grande foto —, dando una valutazione positiva di ciò che Francesco ha detto e ha fatto in Myanmar. Il titolo nell’edizione a stampa era: Respect each ethnic group: Pope[3]. Ma il viaggio di Francesco era stato preceduto il 25 novembre da un articolo apparso su China Daily — il più diffuso quotidiano cinese in lingua inglese, con sede a Pechino — tutto dedicato ai gesuiti che hanno «lasciato un segno indelebile nella Nazione». Il titolo dell’articolo è chiaro: Men on a mission, «uomini in missione»[4]. Due dati ulteriori: il Consigliere di Stato e Ministro degli Affari Esteri del Myanmar, la Sig.ra Aung San Suu Kyi, dopo aver ricevuto Papa Francesco, è volata a Pechino. E il Papa stesso ha rivelato nella conferenza stampa in volo che proprio in questi giorni si sarebbe svolta a Pechino una seduta della Commissione mista che studia i rapporti tra Cina e Santa Sede. E non ha nascosto i suoi desideri a proposito di una eventuale visita in Cina: «Mi piacerebbe, non è una cosa nascosta. Le trattative con la Cina sono di alto livello culturale». Ma ha aggiunto «Poi c’è il dialogo politico, soprattutto per la Chiesa cinese, con quella storia della Chiesa patriottica e della Chiesa clandestina, che si deve andare passo passo, con delicatezza, come si sta facendo. Lentamente». E ha concluso: «Ma le porte del cuore sono aperte. E credo che farà bene a tutti, un viaggio in Cina. A me piacerebbe farlo…». [1] Corsivo mio. [2] http://www.globaltimes.cn/content/1077488.shtml [3] http://www.globaltimes.cn/content/1077697.shtml [4] http://usa.chinadaily.com.cn/life/2017-11/25/content_34980286.htm Per approfondire: Condividi questo:Fai clic qui per inviare l'articolo via mail ad un amico (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per stampare (Si apre in una nuova finestra)Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Pocket (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra) Buonasera. Sono lieto di essere qui questa sera a presentare un volume frutto del laboratorio della rivista La Civiltà Cattolica, una delle più antiche riviste del mondo. Ricordo che la nostra rivista negli ultimi 21 mesi ha pubblicato già 13 articoli sulla Cina. Il volume desidera entrare con discrezione, umiltà e ammirazione «nell’anima della Cina», cioè nel cuore di una cultura e di una civiltà antichissima. Questa sera ascolteremo tre voci importanti ed estremamente rappresentative per i rispettivi ruoli: nel contesto italiano, europeo e vaticano. Siamo grati per la loro presenza che ci onora molto: il Presidente Paolo Gentiloni, il Presidente Romano Prodi e il p. Federico Lombardi. A loro è affidato il compito di parlarci della loro esperienza e della loro comprensione della Cina. Il nostro non è un incontro POLITICO. Non intende esserlo. Intende essere invece un incontro di TESTIMONIANZA. Qui la Chiesa, l’Europa, lItalia testimoniano il ruolo della Cina nel passato, nel presente e, per quel che vediamo, nel futuro. Innanzitutto penso che tutti qui possano fare proprie le parole che Papa Francesco ha detto in una intervista con Francesco Sisci — che è qui presente in sala — per Asia Times: «Per me, — ha detto il Papa — la Cina è sempre stata un punto di riferimento di grandezza. Un grande Paese. Ma più che un Paese, una grande cultura, con un’inesauribile saggezza».  La cultura occidentale ha imparato tanto da questa grande cultura e dalla saggezza cinese che sono arrivati in Europa grazie allo studio e alla passione dei gesuiti e soprattutto dei figli della nostra Italia. Faccio un nome per tutti: il siciliano Prospero Intorcetta, grande studioso e traduttore di Confucio. Filosofi come Leibniz hanno fatto tesoro di questa lezione. Pure le lettere dei missionari gesuiti in Cina — veri e proprie reportage — al tempo dell’Illuminismo furono occasione di conoscenza della cultura cinese da parte di intellettuali quali Voltaire, Montesquieu e Rousseau. Grazie a uomini di Chiesa, cioè i gesuiti, la cultura cinese incide nel pensiero e anche nel gusto in maniera profonda nella grande cultura europea. Potremmo dire che i gesuiti sono stati pionieri nella sinizzazione dell’Occidente. E anche alla nostra rivista papa Francesco — lo scorso febbraio in occasione della pubblicazione del numero 4000 — aveva dato come modello di riferimento un uomo che ha amato la Cina senza riserve: Matteo Ricci o Lì Mǎdòu, come conosciuto in Cina (1522-1610). Questo gesuita di fine ‘500 — che si trasferì in Cina a 30 anni — compose un grande Mappamondo (坤輿萬國全圖). Esso servì a creare connessioni tra il popolo cinese e le altre civiltà. Il mappamondo offre una visione unitaria: è un ponte che collega visibilmente le terre, le culture e le civiltà che sono sotto il cielo. In un mondo diviso come il nostro, in un mondo di muri e ostacoli, l’ideale dell’armonia di una terra in pace deve animare la nostra azione. Il presidente Xi Jinping in un discorso all’Unesco del 2014 usò l’immagine dei molti colori per descrivere il «magnifico atlante del cammino delle civiltà umane» sulla terra. Usò quindi l’immagine del mappamondo e della tavolozza di colori per esprimersi direttamente contro il cosiddetto «scontro di civiltà» e in favore dell’armonia. Ricordo che anche Papa Francesco ha usato l’immagine della tavolozza dei colori e ha proposto la «civiltà dell’incontro» come alternativa alla «inciviltà dello scontro». Proprio nell’intervista ad Asia Times Francesco aveva affermato: «Il mondo occidentale, il mondo orientale e la Cina hanno tutti la capacità di mantenere l’equilibrio della pace e la forza per farlo». Ma l’equilibrio a cui pensa Francesco non è certo il frutto del compromesso e della spartizione (il modello Yalta, per intenderci), ma quella del dialogo, quella dell’incontro di civiltà. Abbiamo voluto pubblicare questo volume anche per contribuire alla riflessione sulla vita della Chiesa cattolica in Cina, che è presentata grazie anche ad interviste e testimonianze di voci cinesi. Da queste voci si comprende come anche oggi lo sviluppo e il progresso economico non hanno eliminato i bisogni spirituali. Tutt’altro. In questo ambito prende senso la riflessione teologica. Nel contesto del confucianesimo e del taoismo tradizionali, la teologia cristiana cerca di collegare strettamente tra loro il cristianesimo e la grande tradizione del pensiero e della sensibilità cinesi. Il cristianesimo va pensato in termini cinesi e alla luce della grande filosofia e saggezza cinese. Forse andrebbero approfondite meglio le dottrine a carattere filosofico e mistico dell’antico taoismo composte tra il IV e III secolo a.C. Nel Tao Te Ching, si potrebbero ritrovare alcune prospettive molto adatte al pensiero cinese per comprendere a fondo il Vangelo e, viceversa, per approfondire in maniera nuova il messaggio cristiano. E il pensiero va subito ai meravigliosi testi teologici nati dal primo incontro tra il cristianesimo e la cultura cinese tra il VII e il IX secolo, vera teologia cristiana dai tratti profondamente cinesi. La Chiesa in Cina è dunque chiamata ad impegnarsi con slancio nella sua missione di annunciare il Vangelo, per contribuire nel modo più efficace al bene del popolo cinese, con il suo messaggio religioso e con il suo impegno caritativo e sociale. Ed è chiamata per questo ad essere pienamente cinese e dai tratti cinesi, andando a fondo nel processo di inculturazione. La storia del rapporto tra la Chiesa e la Cina è stato molto ricco ma anche molto teso e complesso. Bisogna dunque prendere tempo per far crescere un rapporto di fiducia. La fiducia, più che una «meta», è una via (道)… Ma è anche quel giusto mezzo (中庸) che, come nel guidare una bicicletta, fa star in piedi e permette, trovando la giusta velocità, di andare avanti e di non fermarsi.  Il significato della copertina del volume, in fondo, è proprio questo: riporta il carattere cinese zhong, che significa «centro». È quello usato, tra l’altro, per comporre la parola Zhong yong, che esprime il concetto confuciano di «giusto mezzo», ma anche la parola Zhong guo, cioè «lo stato del centro», che è il nome della «Cina». Fu proprio Matteo Ricci ad usare questa espressione nella sua mappa. In termini geopolitici, il centro del mondo oggi è abitato proprio da chi cerca con pazienza questo «giusto mezzo», prendendosi cura della nostra casa comune e della sua intima armonia, tanto amata dallo spirito cinese. Condividi questo:Fai clic qui per inviare l'articolo via mail ad un amico (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per stampare (Si apre in una nuova finestra)Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Pocket (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra) Fr. Antonio Spadaro S.I., Introductory remarks for the book launch of «Nell’anima della Cina» (In the soul of China) I am happy to be here this evening to present a volume that is the fruit of the whole workshop of the journal La Civiltà Cattolica, one of the oldest journals in the world. I recall that our journal has already published 13 articles on China in the last 21 months.  This volume wants to enter with discretion, humility and admiration “into the soul of China”, that is into the heart of a very ancient culture and civilization. This evening we will listen to three important and extremely representative voice for their respective roles: in the Italian, European and Vatican context.  We are grateful for their presence that honors us a lot: President Paolo Gentiloni, President Romano Prodi and Fr Federico Lombardi.  The task of speaking to us of their experience and understanding of China was entrusted to them. Ours is not a political encounter.  It is not meant to be that.  It is intended to be instead an encounter of witnessing.  Here the Church, Europe and Italy witness to the role of China in the past, in the present and, from what we are seeing, in the future. First of all I think that everyone here can share as their own the words that Pope Francis said in an interview with Francesco Sisci for Asia Times: “For me — the Pope said — China was always a point of great reference.  A great country. But more than a country, a great culture, with an inexhaustible wisdom”. Western culture has learned so much about this great culture and the Chinese wisdom that came to Europe thanks to the study and passion of the Jesuits and of the sons of our Italy.  I will name one from among all of them: the Sicilian Prospero Intorcetta, a great scholar and translator of Confucius. Philosophers such as Leibniz treasured his lessons. Also the letters of the Jesuit missionaries in China—real reportage—during the Enlightenment were opportunities for knowledge of Chinese culture on the part of intellectuals such as Voltaire, Montesquieu and Rousseau.  Thanks to men of the Church, that is the Jesuits, the Chinese culture has, in a profound manner, an impact in the great European culture on thought and also on taste.  We could say that the Jesuits were pioneers in the «sinicization» of the West. And also Pope Francis addressing our journal La Civiltà Cattolica —last February on the occasion of the publication of our 40000th issue—gave us as a model of reference a man who loved China unreservedly: Matteo Ricci or Lì Măòu, as he was known in China (1522 – 1610). This Jesuit of the late 1500’s — who moved to China at 30 years of age — created a great map of the world (坤輿萬國全圖). It served to create connections between the Chinese people and other civilizations. The map offered a unifying vision: it is a bridge that visibly connects the lands, cultures and civilizations that are under heaven. In a world divided like ours, in a world of walls and obstacles, the ideal of harmony of an earth at peace must animate our actions.ap President Xi Jinping in a speech to Unesco in 2014 used the image of many colors to describe that “magnificent atlas of the journey of human civilizations” on earth. He then used the image of the m and the color palette to express himself a map of worls against the so-called clash of civilizations and in favor of  harmony.  I recall that Pope Francis also used the image of the palette of colors and proposed the “civilization of encounter” as an alternative to the “incivility of struggle”. Precisely in the interview to Asia Times Francis affirmed: “the Western world, the Eastern world and China all have the ability to maintain the balance of peace and the strength to do so”. But the balance about which Francis thinks is certainly not the fruit of compromise and division (the model of Yalta, for example), but that of dialogue, that of the encounter of civilizations. We wanted to publish Nell’anima della Cina also to contribute to reflection on the life of the Catholic Church in China, which is presented thanks to the interviews and testimony of Chinese voices.  From these voices, one understands how even today development and economic process haven’t eliminated spiritual needs. Anything but. In this ambit, theological reflection makes sense.  In the context of Confucianism and traditional Taoism, Christian theology seeks to closely link Christianity and the great Chinese traditions of thought and sensitivity. Christianity should be considered in Chinese terms and in the light of the great Chinese philosophy and wisdom. Perhaps the characteristic philosophy and mysticism of ancient Taoism composed between the third and fourth centuries B.C. should be studied in greater depth. In the Tao Te Ching, one could find some perspectives very adapted to Chinese thought for understanding the Gospel thoroughly and, vice versa, to deepen the Christian message in a new way. And the thought was immediately of the wonderful theological texts that arose from the first encounter between Christianity and Chinese culture in the 7th and 9th century, true Christian theology of deeply Chinese traits. The Church in China is therefore called to commit herself urgently in her mission of proclaiming the Gospel, to contribute in a more effective way for the good of the Chinese people, with her religious message and with her charitable and social commitment.  And she is called for this reason to be fully Chinese and of Chinese traits, going deep into the process of inculturation. The history of the relationship between the Church and China was very rich but also very tense and complex. We need then to take time to make a relationship of trust grow. Trust, more than a “goal” is a way (道;)… But it is also that of the right mean (中庸) that, like in riding a bicycle, makes you stay upright and it allows you, finding the right speed, to go forward and not stop. The meaning of the cover of the volume, basically, is just this: it carries the Chinese character zhong, that means ”center”. It is what is used, among others, to compose the word Zhong yong, that expresses the Confucian concept of “right means”, but also the word Zhong guo, that is “the state of the center”, which is the name “China”. It was exactly Matteo Ricci to use this expression on his map. In geopolitical terms, the center of the world today is inhabited precisely by whoever seeks this “right means” patiently, taking care of our common home and of its innermost harmony, so loved by the Chinese spirit. La visita del Presidente degli Stati Uniti al Papa è significativa per il ruolo che questa grande nazione ha nello scacchiere internazionale. Lo è stata quella di Obama e lo è quella di Trump. Il sentimento prevalente in alcuni ambienti è quello dell’interesse che, a volte, è unito a una certa curiosità a causa della contrapposizione tra il Papa e il Presidente che spesso è stata data come semplicemente ovvia. Ma il Papa non è ideologico e non pensa per bianco e nero. È anche molto realista: sa che la situazione globale del mondo in questo momento è di seria crisi. E spesso a rischio sono i più deboli. Crescono i nazionalismi, i populismi, le povertà, i «muri». Francesco, il Papa dei ponti, dunque vuole parlare con apertura con qualunque capo di Stato glielo chieda perché sa che nelle crisi non ci sono “buoni” e “cattivi” in assoluto. La storia del mondo non è un film hollywoodiano. Non arrivano mai i «nostri» a salvarci contro i «loro». Il Papa sa che ci sono in ballo sempre e comunque giochi di interesse. Per questo non entra in reti di alleanze precostituite e spesso trova partners proprio in coloro che rappresentano fratture rispetto al pensiero unico. In sostanza, la posizione voluta dal Papa consiste nel non dare torti e ragioni a priori, ma nell’incontrare i maggiori players in campo per ragionare insieme e proporre a tutti il bene maggiore, esercitare il soft power che mi sembra il tratto specifico della politica internazionale di Bergoglio. Il Papa lo ha detto: vuole ascoltare, incontrare. Le porte aperte si possono trovare sempre e il Papa tende a partire nel dialogo da ciò che si condivide con l’interlocutore. È un atteggiamento che fa parte anche della tradizione dei gesuiti: è il principio che noi chiamiamo del praesupponendum (Esercizi Spirituali, 22), chiave del pensiero e dell atteggiamento bergogliano. Certo l’argomento che più sta a cuore a Francesco è quello delle gravi crisi umanitarie che richiedono risposte politiche lungimiranti. E il Papa è pure consapevole dei valori spirituali ed etici che hanno plasmato la storia del popolo americano. Lo si è ben compreso durante il suo viaggio negli Stati Uniti. Quindi c’è da immaginarsi che il Papa esprimerà con franchezza l’importanza di preservare questi grandi valori del popolo statunitense e, in maniera specifica, la sua preoccupazione per i poveri, gli esclusi e i bisognosi. Ricordiamo che lo ha già fatto nel telegramma di auguri per l’insediamento del Presidente. Ma l’incontro faccia a faccia avrà un valore differente, più profondo e anche più schietto. Molti si interrogano sullo stile dell incontro. Difficile da dire. Tutto dipende dall’incontro stesso. Non si può dire in anticipo se sarà rilassato o teso. Sarà certamente un incontro «sincero» in cui il Papa dirà quel che pensa e sarà disposto ad ascoltare quel che il presidente Trump pensa e vorrà comunicargli. E in questo senso sarà un incontro senza «muri».Condividi questo:Fai clic qui per inviare l'articolo via mail ad un amico (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per stampare (Si apre in una nuova finestra)Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Pocket (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra) «Utopie, progetti arditi e castelli in aria», così scrisse nel novembre 1849 Carlo Maria Curci, fondatore de La Civiltà Cattolica, riportando i giudizi di alcuni suoi critici sul suo progetto editoriale. Sta di fatto che nell’aprile 1850 quel periodico è uscito davvero. E non ha mai smesso fino ad oggi: con i suoi 167 anni è la rivista culturale più antica d’Italia: una lunga storia sul confine della modernità mediatica. È appena apparso il fascicolo 4000. La prospettiva lunga può aiutare a capire, specialmente i cambiamenti. Che accadeva in quegli anni? I quotidiani cominciavano a diffondersi. La questione che si poneva, allora come oggi, era: l’innovazione tecnologica dell’informazione destina l’uomo a essere più stupido? La Civiltà Cattolica sin dall’inizio ha fatto una scelta giornalistica radicale. In un tempo nel quale le riviste ecclesiastiche di cultura erano in latino e usavano un tono aulico e distante, Curci, insieme a un gruppo di gesuiti, decise che si doveva usare la lingua dei giornali dell’epoca, quelli di un inquieto risorgimento rivoluzionario, liberale, socialista e pure anarchico. Cioè una lingua «militante». Il giornalismo veniva percepito come «procace, ciarliero», un pericolo che gettava scompiglio lì dove la «verità» del libro dava stabilità alla società e alla religione. Questi «fogli volanti e quotidiani» con la loro rapidità di diffusione sembravano dar corpo a una sorta di post-verità. Che fare, dunque? Osteggiare la pericolosa marea di carta o immergercisi a capofitto? La scelta di Civiltà Cattolica fu l’immersione senza salvagente. E colpisce come nel primo «progetto» editoriale del 1849 si dedichi un’ampia riflessione agli aspetti pratici della diffusione, ipotizzando l’acquisto di una presse mécanique da Parigi, del costo di 7.000 franchi, capace di stampare allora 1.000 fogli all’ora. Ecco l’altra domanda: la tecnologia ha a che fare con la questione della «verità»? Proprio questa domanda è stato lo «start up» di Civiltà Cattolica, a prescindere dal fatto che si concordi o meno con le sue posizioni, nel tempo discutibili. Il fatto che si stampino 17 fogli al minuto, come allora, o che una notizia arrivi istantaneamente a un numero indefinito di persone, come oggi, solleva il problema di che cosa sia la verità e quale essa sia. Se prima l’alternativa era tra verità o eresia, adesso è tra verità o propaganda retorica ed emozionale. E forse non è un caso che l’espressione post-truth sia apparsa per la prima volta sulla più antica rivista culturale degli Stati Uniti, The Nation, di 15 anni più giovane rispetto a La Civiltà Cattolica. La migrazione dei «fogli volanti» sugli schermi mobili ha prodotto due risultati: fake news  e hate speech, da una parte; sapere approfondito e partecipazione democratica, dall’altra. La scelta del 1850 di Civiltà Cattolica ci porta a dire che arroccarsi sui tempi andati è suicida, anche perché indietro non si torna. Occorre immergersi, anche se le connessioni son diventate schegge. E occorre farlo per non lasciare la complessità delle cose a chiacchiera di intrattenimento o di attacco o di egemonia o di crociata. E anche perché non si può delegare la verità a un astrattamente puro fact checking. È per questo che da tempo la rivista più antica d’Italia media e sminuzza i suoi contenuti su Facebook, Twitter (@civcatt), Instagram. Ha un sito sito mobile friendly, ed è una delle primissime riviste italiane ad essere presente su Telegram. Oggi per la prima volta La Civiltà Cattolica esce pure in lingua inglese, spagnola, francese e coreana. Le istanze di altri Paesi e culture entreranno a far parte del cuore stesso della rivista come mai prima: è il frutto maturo di un mondo connesso. La convinzione di fondo è questa: la tecnologia non ci rende stupidi. Erode le distanze mentali, potenzia le occasioni di conoscenza e aumenta la portata delle informazioni (giuste o sbagliate) all’interno di reti di relazione. E proprio in questo senso ha a che fare con la verità. Nel bene e nel male. E lo scopo di una rivista di cultura oggi è proprio quello di inserirsi nello sciame eccitato per interrompere il flusso e il riflusso, strutturando un discorso discreto, dialogico, chiaro, capace di bucare la filter bubble delle notizie tribali. Papa Francesco ci ha scritto un biglietto autografo di auguri per il numero 4000 augurandoci di essere «una rivista ponte, di frontiera». E questo Civiltà Cattolica vuole essere nel mondo dei muri: un ponte gettato su frontiere.L articolo è apparso originariamente sull inserto Nova del Sole 24Ore il 19 febbraio 2017. Condividi questo:Fai clic qui per inviare l'articolo via mail ad un amico (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per stampare (Si apre in una nuova finestra)Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Pocket (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra)

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di Antonio Spadaro S.I., direttore de "La Civiltà Cattolica"

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