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Se a volte mi sovvengono episodi del mio passato e, soprattutto, della mia infanzia, e se mi capita di indugiarvi più a lungo di quanto la momentanea e involontaria rievocazione richieda, avverto una specie di fitta. Allora stringo i denti, scaccio il ricordo. È come se dentro di me il tempo fosse un organo che, se troppo sollecitato, trasmette impulsi dolorosi al cervello.È forse anche per questo motivo che provo angoscia ogni volta che – ormai sempre più di frequente – vado dai miei. I ricordi piovono a cascata, mi si rovesciano addosso e mi sommergono. Mia madre, invece, è arrivata a quell’età in cui la memoria è tutto. È tutto anche per via della situazione imprevedibile in cui si è ritrovata a vivere. Coltiva ricordi di decenni passati, ha ripreso i contatti – mai del tutto abbandonati – con amici e amiche d’infanzia, e li condivide con me, che fatico a nascondere un certo fastidio: per me è come grattarsi una ferita che non smette di sanguinare.Con mio padre è diverso: lui è sempre stato una tabula rasa, per me. Di lui non ho ricordi antecedenti a me e nemmeno adesso scava nel suo passato remoto, neppure per consolarsi di quello che è diventato. La sofferenza che provo in sua presenza è di segno diverso – e più egoista. Ogni volta che vado da loro e lo vedo sono costretto ad affrontare il mio più profondo terrore: la dipendenza. Sapere che un individuo autonomo può diventare in tutto e per tutto dipendente da qualcun altro, persino negli atti più elementari (e più sgradevoli) dell’esistenza, conservando al tempo stesso la coscienza di sé e la memoria di ciò che era stato prima. Senza sapere quando ciò finirà. È la mia personale pietra: ogni volta la porto in cima a quella montagna, poi quando me ne vado e torno alle mie faccende, lei rotola giù e la volta dopo mi tocca riportarla in cima.Quel che è peggio è che devo fare tutto in silenzio. E da solo. Quando, qualche mese fa, ho saputo che Amanda Lear avrebbe inciso un nuovo album di cover di vecchi classici di Elvis Presley mi sono sentito percorrere da un brivido. “Ci risiamo”, ho pensato. “E’ proprio incorreggibile”. Però, per una sorta di fedeltà ai miei amori infantili, l’ho comprato non appena è uscito una decina di giorni fa, continuando a chiedermi quale fosse il senso dell’operazione. Dubito che Amanda si conquisterà un nuovo pubblico con questo My Happiness e non so fino a che punto gli adepti del culto presleyano apprezzeranno l’omaggio. L’ho ascoltato, riascoltato e ascoltato ancora. Premetto di non conoscere quasi niente del repertorio di “Elvis the Pelvis”, a parte quelle canzoni che più o meno conoscono tutti - e molte non sono nemmeno tra le tredici scelte dalla Lear - e quindi l’ho affrontato con orecchio vergine e scevro di pregiudizi. Dopo tanti ascolti qual è il mio giudizio, dunque? Be’, con mia grande sorpresa confesso che mi piace, e anche parecchio. Innanzitutto si nota che la Lear per prima si dev’essere divertita a farlo. E forse è proprio questo lo scopo dell’album: superata la boa dei settant’anni, rinata a nuova vita grazie ai suoi successi nel teatro di “boulevard” in Francia, Amanda Lear non ha più bisogno di dimostrare nulla e può fare qualcosa solo per il piacere di farlo, indipendentemente dalla resa commerciale.My Happiness non è un album buttato lì, ma si nota al contrario una certa cura negli arrangiamenti e nella produzione. Niente strumenti elettronici, niente computer, ma una vera orchestra - la Secession Orchestra parigina diretta da Clément Mao-Tackaks -, che fa la differenza. Poi, curiosamente, Amanda canta. Voglio dire: canta sul serio, con risultati altalenanti e forse non sempre all’altezza, ma almeno non biascica, non sussurra, non ammicca come faceva nel precedente - penosetto e un po’ kitsch - I Don’t Like Disco, e nei momenti migliori fa pensare a una Marlene Dietrich risorta per darsi al rock ‘n’ roll. Le canzoni sono di una bellezza semplice, come forse lo erano le canzoni d’intrattenimento di una volta, e alcune versioni sono azzeccate. Suspicious Minds, che a un primo ascolto mi aveva lasciato perplesso, ha invece un crescendo trascinante. (You’re the) Devil in Disguise mette immediatamente di buon umore, è trascinante, e sfido chiunque ad ascoltarla senza segnare il tempo con il piede. Trouble è migliore della versione che la stessa Lear incise nel 1975 e con cui esordì nel mondo della musica. In generale sono più riusciti quei pezzi dal piglio più rock e deciso (All Shook Up, Viva Las Vegas), un po’ meno quelli più lenti e romantici, come What Now My Love (a sua volta una ripresa di Et Maintenant di Gilbert Bécaud), o You Don’t Have to Say You Love Me, in cui il confronto con la cover di Dusty Springfield è impietoso e mostra gli evidenti limiti vocali della Lear. La canzone che chiude l’album e gli dà il titolo,My Happiness, è un gioiellino in cui Amanda ci regala un’esecuzione acustica accompagnata dalla sola chitarra.Insomma, la vecchia volpe mi ha colto ancora di sorpresa rovesciando le mie aspettative. C’è ancora un futuro discografico per Amanda Lear? Tra i dilemmi in cui si può dibattere un non più giovane omosessuale c’è questo: è meglio innamorarsi e, non ricambiati, struggersi per questo innamoramento senza mai nemmeno riuscire a portarsi a letto l’oggetto del proprio innamoramento oppure, dopo esserselo portato a letto - e magari più volte -, doversi rassegnare al fatto che innamorato di te lui non lo sarà mai? Insomma, meglio qualcosa - una specie di premio di consolazione - quando in realtà si aspira a un “di più” oppure meglio niente del tutto quando non si può conseguire il primo premio, il podio, nella competizione amorosa, perché qualunque cosa “di meno” renderebbe ancora più pungente la sensazione della mancanza? (Poi - è evidente - uso i termini “innamoramento” e “innamorarsi” come una sorta di stenografia dei sentimenti, vocaboli a cui ogni lettore potrà attribuire un senso secondo la propria esperienza, una maggiore o minore profondità o serietà, anche quando forse dovrei parlare di “invaghimento” o “incapricciamento”). Oppure - per la pace della propria mente - c’è anche una terza via: finire a letto con gente di cui mai ci s’innamorerebbe e che mai s’innamorerebbe di te, traendone reciproco e momentaneo soddisfacimento - più o meno, è comunque soggettivo -, ma senza strascichi emotivi, senza cascami di desideri irrisolti: macchine non più desideranti, ma unicamente copulanti. (Infine, ci sarebbe un problema alla base di tutte queste considerazioni: il punto non è soltanto innamorarsi o non innamorarsi, scopare o non scopare, essere o non essere ricambiati, ma essere all’altezza dei propri innamoramenti.) In una delle “fiabe russe proibite” raccolte da A. N. Afanas’ev, un generale chiede a un arcivescovo come facciano i prelati a “vivere senza peccato, senza fottere”. L’arcivescovo gli risponde di mandare un suo cameriere il giorno dopo così da rivelargli il segreto. Il cameriere ci va e viene fatto attendere ore senza essere ricevuto: “Il cameriere sta lì a lungo, a furia di stare in piedi, non ne può più, si sdraia e lì si addormenta, dorme fino al mattino.” Due giorni dopo ritorna ancora e viene convocato dall’arcivescovo che, dopo avergli chiesto se ha aspettato in piedi, se poi si è sdraiato e addormentato, chiosa: “Lo stesso col mio cazzo: s’alza in piedi, ci resta per un poco, poi casca seduto e si addormenta”.Mi domando se questa tecnica, oltre che nelle situazioni in cui bisogna estinguere erezioni indesiderate, sia applicabile anche in caso di innamoramenti che non possono essere corrisposti. Se funzioni anche - mi si conceda la metafora - con i turgori dell’animo amoroso. Uno si incapriccia di un’altra persona, la sua mente comincia a costruire castelli in aria, cerca di resistere perché sa che è un amore impossibile, la razionalità gli dice di lasciare perdere, ma dentro un tarlo continua a roderlo, i pensieri girano intorno a quell’unico cerchio. Che fare? Affrontare il ridicolo di dichiararsi? No, forse è meglio seguire il consiglio di quell’arcivescovo: come il cazzo, prima o poi quell’innamoramento si consuma e si affloscia. Si sdraia e si addormenta. E fino a quel momento bisogna resistere e, se si può, vedere il “dopo” nel “prima”.Perché è la fiammella di una candela accesa sotto una campana di vetro. C’è solo una quantità limitata di ossigeno e, prima o poi, la fiamma lo consuma tutto. Quando si è esaurito, la candela si spegne per forza. Basta restare a guardare quella fiammella estinguersi poco a poco. Lo fa sempre: bisogna avere pazienza e aspettare. Siccome è appena passato Natale, fuori piove e l anno declina assai poco dolcemente, è l ora di tirare qualche bilancio.Il 2013 è stato un anno orribile, ma mi consolo pensando che finisce meno peggio di quanto fosse cominciato. Non m interessano i grandi affreschi sociali o geopolitici, beninteso, ma parlo solo di me. Questo è stato per me l anno del rallentamento delle funzioni vitali. Mi viene da ridere, se considero le premesse di me che scrivo, ma nel 2013 ho visto diminuire d intensità il mio entusiasmo - o quel che ne restava - per le cose. Dopo la malattia di mio padre (e la relativa stabilizzazione che ne è conseguita, da qualche mese a questa parte) è come se avessi anch io tirato i remi in barca. Da un certo punto di vista, questo evento mi ha reso ancora più acutamente sensibile alla precarietà di ogni cosa. Da un lato mi spinge a immergermi ancora di più nel presente spremendolo il più possibile e gettando un velo nero sull idea stessa del futuro. Fatico persino a immaginarmelo, ed è come se la mia mente calasse una saracinesca per impedirmi di pensarci, o di pensarci troppo. Perché, se ci penso, a prevalere è soprattutto il senso di una minaccia incombente: per quanto ottimismo residuo riesca a mettere in campo, ho la consapevolezza che l entropia farà il suo corso, con la decadenza che inevitabilmente si trascina dietro.Quest anno, quindi, ho fatto di meno rispetto agli altri anni. Ho viaggiato di meno: solo un fine settimana a Londra, una sorta di fuga in aprile, e sei giorni in tutto come vacanze estive, tra la fine di agosto e l inizio di settembre, con l orecchio sempre attaccato al telefono un paio di volte al giorno per verificare che a casa dei miei genitori tutto seguisse più o meno il suo corso regolare. Dal punto di vista culturale - usiamo questo termine così tronfio - ho combinato poco o nulla: nessun teatro, quasi nessuna mostra, nessun concerto (ricordo persino di aver svenduto, sconsolato, a un bagarino il biglietto per il concerto di Asaf Avidan, tanto quella sera ero depresso e disincline ad agitarmi in mezzo alla folla dell Alcatraz), ma sempre tanti libri e tanta lettura, diventata ormai una sorta di coperta di Linus, un vizio compensatorio.Più o meno come il sesso, che ha acquisito ancora più del solito la funzione di ansiolitico, potenziata dal pensiero (più o meno inconsapevole) nel retro della mia mente che è meglio approfittarne finché ce n è, perché poi - inattesa e improvvisa - potrebbe capitare una catastrofe. E poi, per parafrasare Gertrude Stein, un cazzo è un cazzo è un cazzo - e, quindi, è sempre meglio di nessun cazzo - o, come suggerisce un vecchio adagio, è meglio avere rimorsi che rimpianti. Dal punto di vista più strettamente amoroso ho tenuto fede a un impegno preso con me stesso e, così, ho abbandonato il proposito di scoprirmi troppo con qualcuno di cui avrei potuto innamorarmi - o incapricciarmi, se non vogliamo esagerare con i paroloni - quando costui ha mostrato verso di me una gentilezza di troppo in un momento in cui ero più vulnerabile illudendomi che non fosse dettata solo da un estemporanea compassione. E, come mi ripeto ormai spesso, piuttosto che scrivere ancora una lettera (o una mail, o un messaggio) d amore, mi mozzo da solo tutte le falangi. Sono rimasti invece gli amici (pochi) di sempre, a cui non sono abbastanza grato per il fatto di avermi sopportato finora, e mi piacerebbe pensare che questa fine d anno me ne abbia portato in dono un altro.Il fatto che poi io scriva tutto questo sul blog, abbandonato da mesi, potrebbe far credere che io abbia intenzione di rianimarlo, dopo tanto tempo. Gli eventi lo avevano travolto e hanno soprattutto annientato un altra illusione: che le parole possano in qualche modo sopperire alle carenze della realtà, che possano davvero essere un balsamo che lenisce le escoriazioni, che possano sul serio essere consolazione per gli animi esacerbati. L altra sera ho riletto un po di cose che avevo scritto in passato e ho avuto la sensazione che fossero state scritte da un altro e che, soprattutto, fossero parole al vento. Se io abbia voglia di spargere altre parole nel vento, ormai, è dubbio. Però questo consuntivo avevo voglia di farlo. L altra sera, al cinema, ho visto Solo Dio perdona, di Nicolas Refn e con Ryan Gosling. Film di una violenza assurda e con scene truculente piene di sangue, arti mozzati ed efferatezze assortite, sullo sfondo di una fotografia e di riprese altamente stilizzate e manierate. Trama abbastanza inconsistente, psicologie polarizzate agli estremi e poco probabili. Ritmi lenti che però non si avvertono come un peso, perché il film dura il giusto - un ora e mezzo - per non annoiare lo spettatore (limitandosi a turbarlo un po ). Ryan Gosling è un pesce nell acqua: la sua naturale espressione catatonica si presta molto alla fissità imperscrutabile del protagonista Julian, da lui interpretato. Grand guignol a piene mani, dicevo, ma mentre assistevo all ennesima scena di questo genere mi sono posto un interrogativo. Nella scena in questione, la madre di Julian è appena stata uccisa, con una sciabolata netta, dal poliziotto cattivo - o, semplicemente, inflessibile nei suoi metodi radicali - e quando il figlio arriva sul luogo del delitto la trova già morta. A sua volta le infila prima una sorta di katana nella pancia, poi direttamente una mano nella ferita aperta, rigirandola bene da una parte e dall altra. Sorvolo sugli echi edipici e sulla simbologia ferita aperta=vagina, ma quando il protagonista estrae quella mano, noi la vediamo grondante sangue. Solo sangue, intendo. Poiché dubito che, prima di morire, la donna si sia fatta praticare una lavanda intestinale, mi stupisce che quelle mani non grondassero anche merda. E l interrogativo è appunto questo: come mai, nei film horror o in film che, come questo, esplicitamente adottano un estetica pulp, non si rifugge dal mostrare con tanta evidenza squarci, mutilazioni, ferite di ogni genere, sangue, sangue e ancora sangue, mentre non si vede mai la merda, anche quando dovrebbe esserci? Insomma, perché il sangue sì e la merda no? Non ho una risposta preconfezionata, però ho la sensazione che il sangue abbia, nel nostro immaginario, una potenza simbolica enorme. Non soltanto al sangue si associa la vita - e perdere sangue equivale a perdere sostanza vitale -, ma tutto ciò che vi è di profondo e radicato nell uomo ha un qualche legame (anche se solamente concettuale) con il sangue, con la sua retorica vitalistica. Non a caso si dice: Ce l ho nel sangue . La merda è invece lo scarto per eccellenza, la parte meno nobile, quella che - pur suscitando ribrezzo - può e deve essere facilmente eliminata. Mostrare la merda fa schifo e basta, mentre mostrare il sangue ha un impatto drammatico maggiore, che dà evidenza alla tragedia; toglie il respiro allo spettatore e gli trasmette un immediato senso di pericolo (senza parlare poi dell idea del contagio che si ricollega al sangue e che in una certa cinematografia è stata ampiamente sfruttata). Provo una punta di imbarazzo per certi vecchi socialisti bolsi che, non avendo saputo far valere le loro presunte ragioni a tempo debito, ora festeggiano, anche in maniera scomposta, la morte di una vecchia malata da anni di Alzheimer, ormai senza più potere da almeno vent’anni (perché oltremanica, quando uno si ritira, si ritira). Purtroppo per loro Margaret Thatcher aveva qualche ragione e la storia gliel’ha data. Io continuo a pensare che gran parte di quello che ha fatto lo doveva fare, in un Regno Unito che negli anni settanta era sull’orlo del baratro economico, pronto ad andare a chiedere soccorso col cappello in mano al Fondo Monetario Internazionale, tormentato da una tassazione a livelli stellari e da una produttività in picchiata. Ha avuto ragione, secondo me, quando ha difeso i cittadini britannici delle Falklands dall’aggressione da parte della dittatura argentina, ha avuto ragione mostrando inflessibilità nei confronti di Bobby Sands e non permettendo che lo Stato si facesse ricattare piegandosi al terrorismo, ha avuto ragione quando ha permesso a molti cittadini britannici di diventare proprietari delle case popolari in cui vivevano, ha avuto ragione contro Scargill. Non è, purtroppo, riuscita a capire che l’unica minaccia non era quella comunista e non ha visto quella islamista che era già all’orizzonte - minaccia che ha bellamente ignorato -, non ha compreso che la libertà dell’individuo - la libertà di ogni individuo di non essere uguale a tutti gli altri - includeva anche, per esempio, la libertà sessuale, non ha avuto ragione quando disprezzava i socialisti per motivi etici - il socialismo “indebolisce” il carattere - e non per motivi oggettivamente economici. Ma in quel Regno Unito lì lei è stata necessaria. E adesso, con il senno di trent’anni dopo, possiamo chiederci se quella Gran Bretagna a cui tanti guardano con una punta d’invidia non sia merito anche delle riforme e dell’operato della “lady di ferro”. Della nostra vita - di noi in quanto noi - ai nostri geni non importa nulla: siamo gli strumenti della loro sopravvivenza, tutto il resto è secondario. Sono loro che si devono propagare, lanciarsi di generazione in generazione, mentre noi possiamo tranquillamente andare a fondo quando questo obiettivo è stato raggiunto. E così continuiamo a gettare dolore sulla terra, procreiamo e passiamo il testimone a quelli che verranno, i quali a loro volta trasmetteranno i loro geni e altro dolore, senza chiedersi perché o, se se lo chiedono, elaborando spiegazioni che giustifichino la guerra che li sta triturando. Perché - sia ben chiaro - ogni vita è una guerra e i nostri corpi sono i campi di battaglia su cui viene combattuta (e persa, sempre e comunque: a fare la differenza è la quantità di sangue che viene sparso). Dice: e la gioia di vivere? Nessuno la nega. Certo che può capitare che sia bello vivere e gioire dell esistenza, senza ricamarci troppo sopra. Ma in questo caso si tratta di una tregua, più o meno lunga, più o meno stabile, che non annulla lo stato di guerra perenne in cui versano tutti gli altri - quelli che in un momento dato non godono per il fatto di vivere - e quello che si sta svolgendo, a nostra insaputa, all interno del nostro corpo. Ai più fortunati è concesso ritagliarsi uno spazio tranquillo nel mezzo delle battaglie che infuriano - spazio che potrà scambiare per la pace, ma che pace non è - e tra i cadaveri che si accumulano intorno a lui. Qualcuno, invece, ne è acutamente consapevole o è costretto a esserlo. Ma per gli uni e per gli altri la vita è un lento morire. Ignorarlo è una benedizione: un dono per certuni, una conquista per altri.

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